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AGLIATE E LA SUA BASILICA (Carate Brianza, 1971)
PARTE PRIMA - AGLIATE E LA
SUA BASILICA
CAPITOLO I Il Comune di Agliate -
Le riforme di Maria Teresa e di Giuseppe II - I primi bilanci comunali - Il
testatico - Agliate centro postale - Soppressione del Comune.
Nell'ambito territoriale del comune
di Carate Brianza, in provincia di Milano, su la sponda sinistra del fondo valle
del Lambro si adagia Agliate con la sua basilica di S. Pietro e Paolo. La
circondano amene alture con case e ville signorili. Ebbe nel passato una
certa qual notorietà sia per la medioevale basilica, e sia perché capoluogo di
pieve, e punto obbligato di passaggio del Lambro per largo giro all'intorno.
Tuttavia il luogo, a differenza del vicino borgo di Carate, non ebbe avvenimenti
locali d'importanza, data la piccolezza del suo territorio, e l'esiguo numero
degli abitanti. La popolazione, che al tempo di S. Carlo contava un centinaio
di persone, doveva essere ancor meno nei secoli precedenti. Nel censimento
generale del 1862 il comune di Agliate aveva raggiunto dopo tanti secoli le 368
anime, con un'estensione territoriale di 87 ettari ossia quasi la metà di quella
della pur piccola soprastante Costa. E' col secolo XVIII che si incomincia,
si può dire, ad avere sicure notizie del piccolo comune d'Agliate. Il
tramonto del secolo precedente doveva segnare la fine del nefasto governo
spagnolo su le nostre terre, lasciando miseria e ignoranza, disordine e
malandrinaggio. La morte di Carlo II di Spagna (1° novembre 1700) senza eredi
legittimi aveva suscitato aspri contrasti fra i vari contendenti alla
successione. Dopo lunghe guerre, le quali, benché inframezzate da brevi periodi
di pace, impedirono l'applicazione di necessarie riforme, finalmente nel 1748
col trattato di Aquisgrana lo Stato Milanese passò definitivamente all'Austria,
iniziandosi un mezzo secolo di continua e feconda pace. Sotto la spinta di
nuove dottrine riformatrici che dalla Francia venivano diffondendosi, più o
meno, in tutta l'Europa, si posero le condizioni per un rinnovamento economico e
sociale; rinnovamento presso di noi propagandato da competenti studiosi quali il
Verri, il Neri, il Carli, il Beccaria, ed altri. Nel 1759 l'imperatrice
d'Austria Maria Teresa, figlia di Carlo VI, mandava in Lombardia il trentino
conte Carlo Firmian a reggerne le sorti, quale Ministro Plenipotenziario, e vi
rimase fino al 1782. Ma forse più che il Firmian, un diligente burocratico
esecutore di ordini superiori, fu il Kaunitz che da Vienna si interessò della
Lombardia. Le riforme introdotte durante il governo di Maria Teresa (†1780) e
del figlio successore Giuseppe II († 1790) nella seconda metà di quel secolo
furono di varia e complessa natura: amministrative, tributarie, giudiziarie,
ecclesiastiche, territoriali, ecc. Quelle del tempo di Maria Teresa furono
prudentemente innestate sul passato, e perciò meno dottrinarie, accentratrici, e
frettolosamente radicali di quelle di Giuseppe II, e nel loro complesso più
pratiche ed efficaci. In correlazione con le riforme comunali e provinciali,
il primo gennaio 1760 entrò in vigore il nuovo censimento o catasto generale,
iniziato nel 1719 e ultimato nel 1724. Venne redatto non più con la squadra,
come si usava nel passato, ma con la più precisa tavoletta pretoniana inventata
dal matematico olandese Pretorio nella seconda metà del secolo XVII. Si erano
formate altrettante precise e numerate mappe topografiche con delineate la
figura e la situazione d'ogni appezzamento di terreno con relativa esatta
misura, e nome del possessore, per ogni Comune dello Stato di Milano. A questa
misura venne altresì annessa una nuova stima dei terreni stessi, in base alla
loro coltura, e cioè se aratorio, prato, vigna, bosco, ecc., per una più equa
distribuzione dei carichi (1). Dal 1760
datano appunto i più antichi bilanci rimastici dei nostri comuni rurali. Il più
vecchio bilancio del Comune di Agliate che possiamo conoscere è del 1762 (2) Furono
annullate le precedenti congregazioni o consigli comunitari, formati dagli
anziani o capi famiglia del luogo, e loro eventuali privilegi e consuetudini,
unificando le amministrazioni comunali. Agliate, in quanto capo pieve, e
nonostante i suoi pochi abitanti, conservò la sua antica autonomia comunale. Il
nuovo consiglio, detto convocato, fu composto di tutti i possessori
estimati nei quali di fatto primeggiavano i più ricchi, coi suoi tre deputati
dell'estimo quali effettivi amministratori (una specie di assessori comunali),
che restavano in carica un anno. Come tutte le altre comunità rurali ebbe un
sindaco, quale legittimo rappresentante del convocato, un console
con particolari attribuzioni (bandire gli ordini, indire le adunanze,
presenziare gli atti amministrativi e giudiziari), un esattore per la
riscossione delle imposte del cui gettito solo una metà spettava al comune, e un
revisore dei conti. I bilanci, per mezzo del regio cancelliere delegato
dovevano essere presentati all'autorità superiore per essere verificati ed
approvati. Tolto ogni privilegio, i civili ed i rurali furono giustamente
eguagliati nel pagamento dei carichi terrieri, e delle altre
imposte. Obbligatorio per ogni comune tenere un proprio archivio. Nei
convocati non doveva mancare la presenza del cancelliere delegato. Un ente
insomma che si amministrava da sé sotto la tutela dell'autorità
centrale. Tutte queste riforme fecero sì che nella seconda metà del
settecento, l'agricoltura, per non dire altro, fece poco a poco larghi
progressi: si raddoppiarono i prodotti e i profitti; si dissodarono terre
incolte; si intensificò la piantagione dei gelsi, la coltivazione dei bachi e la
filatura della seta; si migliorarono le viti, i prati e i boschi; si
introdussero dall'estero nuove piante e colture (platano, robinia, patata ecc.);
si aumentò l'allevamento del bestiame ecc.
*** Quei vecchi bilanci portano una
piccola entrata ed una non meno piccola uscita. Fatte le debite proporzioni è
quanto, più o meno, si verifica in tutti i comuni rurali grandi o piccoli che
fossero. Non si sentiva allora la generale necessità della istruzione
pubblica, dell'igiene, delle facili comunicazioni, delle opere assistenziali, e
di tant'altre esigenze che oggi una popolazione di campagna la quale voglia
dirsi civile non può farne a meno. L'attività dei comuni continuava, si può
dire, ad essere più che altro occupata nella distribuzione e riscossione dei
carichi. Le entrate e le uscite presero a crescere col passare degli anni,
via via sino a noi, in correlazione al lento ma continuo progresso e benessere
familiare e sociale. In Agliate l'imposta prediale rendeva relativamente poco
per la piccolezza del territorio, e, fors'anche perché i signori proprietari,
che avevano nelle mani il potere, cercavano di risparmiarsi; e l'altra sul
mercimonio, ossia dell'industria e del commercio (istituita nel 1773), fruttava
quasi nulla. Da un ruolo redatto in quegli anni, in Agliate non esistevano che
un oste, due postari del sale (uno per la parte della pieve al di là del Lambro,
e l'altro per quella al di qua), un moletta (arrotino), un ferraio, un tessitore
di lino e due mulinai. Il maggior gettito proveniva dal testatico, che Maria
Teresa aveva ridotto per tutti ad un massimo di lire sette per testa: colpiva i
maschi dai 14 anni compiuti ai 60, esclusi gli ammalati, le donne, e le famiglie
con 12 figli, esonerandoli, in compenso, dal tributo del sale e da altri
oneri. Imposta tuttavia sempre odiosa e mal sopportata dal popolo. Variamente
manovrata nel passato, si era talora giunti a cifre intollerabili, per cui non
pochi cercavano di sfuggirvi, emigrando clandestinamente negli Stati
confinanti. Ricorderemo infine come la comunità di Agliate possedeva ab
antico un pascolo di pertiche 2.6. Questa sorte di beni comunali (detti
comunanzie) affondavano le loro radici nel medioevo antico.
*** Allorché in quei lontani tempi,
data la dominante economia terriera, capitava la grandine od altre avversità per
le quali andavano gravemente danneggiati o distrutti i raccolti, le cose si
facevano quanto mai serie: nelle famiglie entrava la fame. Così il 28 maggio
1477 quei della pieve di Agliate al di qua del Lambro supplicarono la reggente
duchessa di Milano, Bona di Savoia, di poter procrastinare il pagamento della
tassa sul sale, data la loro " extrema povertà et per la grande influentia de
tempeste occorse quatro volte anno proxime delapso in queste parti, in modum non
hanno percepte blade ne hano in altra fructi, seu minima cosa, stentano taliter
de fame, che mangiano, per non aver pane, de le radici et herbe " ecc. In
altra lettera di quegli anni, un Alessandro de Besana postaro del sale della
pieve d'Agliate al di là del Lambro, non potendo gli abitanti pagare per la "
nimia paupertate et penuria bladi existente in ipsa plebe qui homines dicte
plebis difficiliter vivere possunt ", domandava d'essere pur egli
esonerato dal versare il relativo importo alla Camera ducale. Il sale era
allora monopolio statale. Altre consimili petizioni troviamo durante il
successivo dominio spagnolo. Le situazioni dolorose venivano aggravate dalla
difficoltà di importare grani dall'estero, poiché in base alle dottrine
economiche dominanti in quei secoli, gli Stati impedivano la libera esportazione
delle granaglie coll'intento di mantenere l'abbondanza nei propri domini. Nel
1343 la parte della pieve d'Agliate oltre il Lambro aveva questa consistenza: "
bocche omini mazori n. 1427; minori 109; bestie bovine n. 302; campi 10894,
vigna 1912, roncho 3330, prà 3437, boscho 9248 ". Dal che, approssimativamente,
si può arguire quanto scarsa e povera fosse allora la popolazione, e come larga
parte del terreno fosse ancora a boschi (3). Nella Brianza
collinare non c'era posto per il latifondo, ma vigeva la piccola e media
proprietà.
*** Agliate nell'ultimo quarto del
secolo XVIII divenne un centro postale. Il conte Firmian, con decreto del 20
maggio 1773 costituiva Carlo Giuseppe Scanziano pedone di Agliate, "
convenendo, dice il decreto, al Cesareo Reale Servigio ed al pubblico
comodo che vi sia un Pedone, o un Messaggiere a cavallo d'Offizio fisso,
il quale venga regolarmente una volta la settimana nel giorno di martedì colle
lettere di Agliate e sua giurisdizione a Milano per la via di Desio e fedelmente
consegni le lettere e Pieghi di scrittura, o stampa, all'Ufficio Regio de'
Pedoni, e da qui parta nel giorno stesso al dopo pranzo ritornando per la stessa
via colle Lettere di questa Città, Stato e Forensi a Agliate da distribuire nel
caso non vi sia colà un Commesso destinato a riceverle e distribuirle " (4). Col novembre
1786 le pievi cessarono di essere considerate circoscrizioni territoriali nei
riguardi della amministrazione civile. Vi si introdussero i Distretti costituiti
da una o più pievi. La pieve di Agliate con la squadra di Nibionno venne a
formare il sesto distretto. Né va dimenticato che, negli ultimi anni di quel
secolo, troviamo Agliate dotato di una scuola d'istruzione elementare. Fatto
notevole per quei tempi.
*** Nei documenti antichi, riguardo
agli oneri dovuti dalla nostra pieve alla camera ducale, si trova di frequente
distinta la parte al di là del Lambro (ultra Lambrum), da quella situata al di
qua (citra Lambrum). Il fatto trasse origine dal privilegio col quale
Francesco I Sforza il 12 maggio 1432 rese immune ed esente in perpetuo la pieve
di Agliate al di là del Lambro dalle imbottiture, e dai dazi del pane, del vino,
e delle carni, e di altri oneri, conglobando il tutto in sole lire 300 imperiali
da versare alla camera ducale ogni anno. Successivamente, dati i gravi bisogni
dell'erario, il 17 febbraio 1436 furono aumentate a 360 lire, fermo restando
quanto concesso nel decreto di esenzione (5). La concessione
venne fatta in considerazione della fedeltà al duca da parte di Filippo Casati e
degli abitanti (cittadini e rurali) di questa parte della pieve, in momenti per
lui difficili per la conquista del ducato. Per questo la pieve di Agliate
ultra Lambrum venne considerata anche ufficialmente come parte del territorio
del Monte di Brianza, o Brianza come più semplicemente diciamo oggi. Negli
atti di visita pastorale del Card. Federico Borromeo del luglio 1608 si dice
infatti che la chiesa plebana di S. Pietro e Paolo di Agliate, situata oltre il
Lambro, era comunemente ritenuta da queste parti l'inizio del Monte di Brianza:
" et dicitur initium Montis Briantie ". E allorquando nel 1388 i Cappuccini
accettarono di erigere un loro convento a Verano, sulla sponda destra del Lambro
di fronte ad Agliate, vi si nota che lo fecero anche perché da quell'altura si
prospettava un ampio panorama sul territorio del Monte di Brianza (6). L'altra parte
della pieve al di qua del Lambro (Carate, Albiate, Sovico, Verano, Robbiano,
Giussano, S. Giovanni in Baraggia e Molini di Peregallo) il 20 febbraio 1478 era
stata assegnata in feudo al conte Angelo Balbiani, figlio di Gabriele, in cambio
di quello di Chiavenna e dipendenze richiamato alla corte ducale (7). Le successive
vendite di parecchi paesi fatte dai feudatari ne diminuirono la consistenza.
Carate, il luogo più importante, rimase però sempre in potere dei
Balbiani. L'ultimo feudatario fu il canonico conte Don Benedetto, morto in
Arosio il 2 agosto 1760 dove i Balbiani tenevano la loro dimora, e fu sepolto
con speciali onori nella chiesa dei Cappuccini di Verano. Quel tanto ch'era
rimasto del feudo, ossia Carate e Albiate, poiché anche Sovico era stato perduto
in una lite intentata e vinta dal nobile Pietro Lattuada (1722), ritornò alla
Regia Camera. Respinte le ragioni di parecchi pretendenti, Carate passò in feudo
ai conti Confalonieri, e Albiate a Giovanni Mellerio col titolo di conte. Fu
richiamato alla Regia Camera anche Giussano, essendo mancato il reale assenso
alla vendita che il conte Alessandro e fratelli Balbiani avevano fatto nel 1688
al marchese Flaminio Crivelli, e concesso in feudo nel 1770 a Guido Mazenta col
diritto di appoggiarvi il titolo di marchese. Con la discesa dei
rivoluzionari francesi nel maggio del 1796 tutto fu riformato alla francese; fra
tante altre istituzioni scomparvero anche i feudi e loro titoli. Il comune di
Agliate durò fino al 9 febbraio 1869, nel quale giorno e anno, con regio decreto
venne, con quello di Costa Lambro, aggregato a Carate Brianza. Merita di
essere ricordato il comm.re Dr. Prof. Antonio Rezzonico milanese, che amava
soggiornare ad Agliate, il quale fu per 15 anni assessore della borgata di
Carate, e resse con competenza le Opere Pie. In segno di gratitudine gli venne
posta una lapide ricordo nel palazzo municipale. Morì nel
1905.
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Facciata della basilica col secentesco campanile e la
decrepita canonica, prima dei restauri.
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*** Ma ormai Agliate non è più il
paesello dei passati secoli, ma cammina di pari passo col progresso, e sta
avviandosi verso i mille abitanti, dediti più all'industria che
all'agricoltura. Vanta un moderno convalescenziario per signore (già villa
Albertoni), un Asilo, le Scuole Comunali, l'Ufficio Postale, e si onora persino
di un Circolo di Cultura. Da gente in gamba, come si suol dire, gli Agliatesi
eressero un monumento, semplice e originario nel suo genere, ai suoi quindici
caduti durante la grande guerra del 1915-18. Non mancano negozi ben forniti e
prosperose industrie locali fra le quali officine meccaniche e tintorie. Ben
tenuti alberghetti attirano clienti nella stagione propizia per godervi, con la
frescura del Lambro, il pesce fresco, e se non del Lambro, pescato nel lago di
Como o di altro laghetto brianzolo. Il pesce è ormai pressoché scomparso dalle
acque del Lambro inquinate da ogni sorta di rifiuti, specialmente degli
stabilimenti situati lungo le sue sponde (8).
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Sezione longitudinale della basilica.
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CAPITOLO II
Antichità del luogo -
Popolazioni preistoriche - I Gallo Celti - Memorie romane - Agliate centro di un
pago romano - Il ponte sul Lambro - Il castello medioevale - I Confalonieri
Capitani della pieve - Gli Alliati conti Palatini di Milano - Agliate infeudato
ai Crivelli col titolo di marchese.
La località è di origine
antichissima. Remotissime genti abitarono un tempo queste sponde lambrane,
come ce lo provano i massi di mecascisto con incavature a forma di scodelle
(probabilmente a scopo di culto) scavate dall'uomo nell'epoca neolitica in cui
non si conosceva l'uso dei metalli, ed eseguite con lo strofinio di un ciottolo
coll'aiuto di sabbia ed acqua; massi scoperti, e tuttora trovabili, nelle vicine
boscaglie della cascina Peschiera. Si scrive che nella preistoria prendessero
dimora su le nostre terre gli Orobii, gli Etruschi, i Liguri, ed altri popoli,
dei quali però ben poco, per non dir nulla, si conosce di certo, data l'oscurità
in cui sono ravvolti. Allorquando nel 222 circa avanti Cristo, le legioni di
Roma per la prima volta giunsero sulle nostre terre, entrando vittoriosamente in
Milano, vi erano stanziati i Galli, di stirpe celtica, scesi d'oltre Alpi
quattrocento anni prima della venuta di Cristo, secondo la tradizione liviana,
la cui capitale era Milano. Gente guerriera, dedita alla pastorizia più che
all'agricoltura. Col passare degli anni furono completamente domati dai Romani,
i quali rispettarono le loro circoscrizioni territoriali, i loro culti
religiosi, le loto tradizioni familiari e sociali, purché non contrarie alle
leggi di Roma. Tuttavia man mano finirono coll'entrare nell'ambito della civiltà
romana.
*** Scrisse il Corbella che alcuni
vorrebbero Agliate di origine gallica, ammettendo una facile e lieve sottrazione
di lettera (G alliate = Galliate), mentre per altri tal nome sarebbe derivato da
'alea' = sorte, con cui si intitolava una legione romana, che qui avrebbe
avuto stanza in premio dei suoi meriti. Sono supposizioni che hanno del
fantastico. Forse più consono a verità è il far derivare l'etimo dal
gentilizio romano Allius, Alius molto diffuso nella Gallia Cisalpina (9). Si è pure
pensato che, durante la dominazione gallica, il luogo d'Agliate sia stato un
centro del culto druidico. La cosa per sé non è inverosimile. La località
infatti, allora ben più boscosa che non al presente, si prestava molto bene:
quel culto infatti si esercitava generalmente nel silenzio dei boschi e delle
selve (10). Comunque sia,
Agliate rimonta a tempi che si perdono nel buio di lontani secoli.
*** Se del periodo gallico nulla ci
è rimasto, di quello romano si hanno non poche memorie sia in Agliate che nei
dintorni (Verano, Robbiano, Valle Guidino, ecc. (11). Alla cascina
Peschiera di Carate, l'avello che tuttora raccoglie l'acqua sgorgante da una
fonte, se ben lo si considera, non è altro che un sarcofago
romano. L'Amoretti, parlando della lapide dell'aruspice Veraciliano, oggi
perduta, la dice trovata " nel distrutto castello di Agliate, con qualche
pezzo antico e varie monete d'argento e di bronzo assai pregevoli delle famiglie
Gracca, Suffenate, Planca, di Giulio Cesare, d'Adriano, di Federico II e dei
Visconti, e alcuni lavori in argento e in rame indorato de' tempi di mezzo. Sia
questa iscrizione, che quelle che leggonsi nella chiesa di Agliate stessa, forse
appartennero un tempo a luogo più vicino e cioè a Robbiano, ove negli scorsi
mesi furono dissotterrati alcuni bei pavimenti a mosaico e altri avanzi di
romana costruzione, intorno a' quali le ulteriori ricerche somministreranno
senza dubbio maggiori lumi " (12). Che questa
iscrizione e le altre, di cui parla l'Amoretti, siano forse provenienti da
Robbiano potrebbe darsi, almeno per qualcuna, ma non è certo. Nel quarto
secolo, quando Milano divenne sede imperiale, e una delle città più importanti
dell'Occidente tanto da essere chiamata una seconda Roma, l'alto milanese e i
laghi esercitarono una grande attrattiva sui cittadini di allora, scegliendoli
come luoghi di villeggiatura. Il territorio, solcato da grandi e piccole strade,
poteva meno faticosamente che nel passato comunicare con la città e con i centri
minori. Benché il Lambro, lungo il suo percorso, possa avere avuto più di un
passaggio, è assai verosimile che vi fosse ad Agliate un ponte romano, per
quanto di esso non ci siano rimaste tracce (13). Ce lo fa
supporre il luogo stesso, centro di un pago romano e di poi capo pieve
cristiana, dove vi confluivano e vi divergevano strade vicinali ed altre più
importanti che allacciavano il centro della Brianza con Monza e Milano da una
parte (toccando Carate, Monza, Milano; oppure Carate, Seregno, Desio, Nova,
Milano) e, dall'altra con il Comasco (passando per Verano, Robbiano, Giussano,
Carugo, Cantù, Como). Si è scritto che S. Agostino, il quale nell'autunno del
386 se ne venne da Milano a Cassago nella villa campestre dell'amico Verecondo
per rimettersi in salute e prepararsi al battesimo, sia passato da Agliate. Il
fatto non è inverosimile se si ammette che Cassago corrisponda al
Cassiciacum di S. Agostino (14). Che vi
transitasse inoltre una strada romana Milano-Agliate-Como non mi sembra
credibile (15)
perché il luogo era ed è troppo fuori mano rispetto a Como. D'altronde nulla ce
lo prova. La vera strada Milano-Como partiva da Milano, e accostando Seveso,
Barlassina, Cantù, raggiungeva Como. Nel medioevo era per l'appunto detta strada
vecchia, percorsa anche da San Pietro Martire ucciso presso Barlassina nel
1252. L'alta Brianza era invece attraversata dalla Como-Bergamo, passando
l'Adda sul ponte romano di Olginate (16) E poiché
territorialmente, e in linea di massima, le pievi cristiane, si vuole che
corrispondano al precedente pago romano, ne segue che Agliate, situata nel
centro di un vasto distretto o pago celtico-romano che si stendeva al di qua e
al di là del Lambro, ne doveva essere il capoluogo. Al sacro edificio pagano,
ivi esistente, vi convenivano i pagensi delle due sponde per le comuni funzioni
religiose, per il mercato, e per trattare gli affari inerenti al pago stesso, il
quale aveva i suoi propri magistrati, per cui risulterebbe evidente la necessità
di un ponte in luogo (17). Nulla per
altro ci autorizza a pensare che nell'età romana ci fossero fortilizi o soldati
di guardia alla strada e al ponte, e che la soprastante Costa fosse adibita ad
accampamento notturno dei soldati del presidio. Sono ciance popolari. Il nome di
Costa non ha niente a che fare col significato di castello (castrum): esso ci
richiama la Costa (o Costiera) di Trezzo, Costa Masnago, Costalunga e tant'altre
località distinte con questo nome. Un ampio e forte castello ebbe invece
Agliate nel medioevo. Sorgeva in alto su quel di Costa, e non alla Rovella
come si è pensato da qualcuno. Ce lo attesta una cartina topografica del
secolo XVI, e il cui ricordo è rimasto legato ad un appezzamento di terreno sul
quale nel 1962 fu costruita una casa. Il luogo è detto tuttora il castello, ed è
situato all'estremo lembo dell'altipiano sovrastante il fiume nelle vicinanze
del nuovo ponte e della nuova strada provinciale che da Carate procede per
Villaraverio, Besana, Barzanò, Oggiono, Lecco. Quel Castello è dichiarato
"Castello de Aià " (18) Si noti che
Costa nel Medioevo si chiamava altresi Castellanza di Agliate, e non Costa
Lambro. Quest'ultima denominazione l'ebbe con regio decreto del 14 dicembre
1862, quasi a rendere più evidente il suo distacco da Agliate. Ciò nonostante
sette anni dopo, come si è detto, finì coll'essere incorporata con Agliate nel
vicino grosso borgo di Carate. Nel passato al disotto di quel castello non c'era
alcun ponte sul Lambro, ma fitte boscaglie degradanti verso la sottostante
cascina Peschiera, con la quale, secondo una leggenda popolare, sarebbe stato in
comunicazione mediante una strada sotterranea. Il Lambro veniva
ordinariamente attraversato ad Agliate dove stava il ponte. Fu nel primo
ventennio di questo ventesimo secolo che si costruì la nuova strada provinciale
con il relativo ponte, personalmente benedetto e inaugurato dall'arcivescovo di
Milano card. Ferrari. Quando e da chi venne fatto costruire il castello, e a
quali vicende andò soggetto, e quando distrutto non si conosce. Non si possono
fare che delle congetture più o meno attendibili. Potrebbe darsi eretto
nell'ultimo quarto del secolo IX, o non molto dopo, dai Confalonieri i quali,
secondo alcuni scrittori, avrebbero avuto in quel tempo l'investitura del
Capitaneato della pieve; e probabilmente distrutto, o quanto meno gravemente
diroccato, sul finire del secolo XIII o nei primi anni del seguente, in
conseguenza della grave condanna e confisca dei beni inflitta nel 1295
all'ostinato eretico Stefano Confalonieri di Agliate. Nei secoli seguenti
troviamo i Confalonieri residenti alla Rovella, pur continuando a mantenere, per
lo più, stabile dimora in Milano. Questa famiglia non sarebbe originaria del
luogo, ma proveniente dalla stirpe di Ansperto da Biassono, arcivescovo di
Milano dall'869 all'881, i di cui familiari furono di poi detti Confalonieri per
via del privilegio, che si dice loro concesso dallo stesso arcivescovo, di
portare il confalone davanti agli arcivescovi di Milano, quando facevano,
cavalcando, la loro prima entrata solenne in città (19). L'arcivescovo
Ottone Visconti nel 1277, li comprenderà nel catalogo delle famiglie nobili
milanesi, dalle quali dovevano scegliersi gli Ordinari del Duomo di
Milano. Alcuni ritennero che i Confalonieri d'Agliate avessero il titolo di
conte nel secolo XIII. Ma con molta probabilità è da ritenersi inverosimile,
per quanto anche Ignazio Cantù lo affermi nelle sue vicende della Brianza (20). Non è
documentabile. Sappiamo invece di certo che parteciparono alle vicende
milanesi al tempo della Lega Lombarda. Nel marzo del 1167 a Cremona giurarono
capitoli di concordia le città di Cremona, Milano, Mantova, Bergamo, Brescia.
Tra i firmatari da parte dei milanesi vi era, oltre un " Albertus de Carate ",
un " Confanonerius de Aliate " (21). Di questa
casata rimasero tristemente celebri un Eriprando, condottiero dei nobili contro
il popolo, il quale fuggiasco in terra bergamasca con altri nobili milanesi,
avrebbe nel 1259 sollecitato il feroce Ezzelino da Romano ad invadere il
Milanese; e il soprannominato Stefano che favoriva e proteggeva eretici,
ricoverandoli nel lontano sicuro castello d'Albogasio in Valsolda, se non forse
anche in quello di Agliate. Ebbe costui parte importante nel tramare la morte
del domenicano Pietro da Verona, e fu lui che se ne venne a Giussano a
consegnare il denaro ai soci congiurati per pagare i sicari. Per questo il 12
aprile 1252 fu messo al bando dal Podestà di Milano. Incorreggibile fu
condannato a perpetua prigionia il 21 gennaio 1260. Trovò modo di evadere dalla
prigione e di mantenersi in libertà col favore delle discordie sopravvenute fra
la Chiesa e la città di Milano, continuando nel suo operare, finché nel 1295
caduto di nuovo nelle mani degli inquisitori fu come si è detto duramente
condannato e confiscato dei suoi beni. Col passare degli anni i Confalonieri
d'Agliate si suddivisero in più rami, i quali, oltre che in Milano, presero
residenza nei circonvicini paesi della Brianza e altrove. Ignazio Cantù
ricorda, ad esempio, un Valerio dei Confalonieri d'Agliate che nel 1558 si
laureò in diritto, e quindi eletto consultore del Sant'Ufficio. Uomo di molta
dottrina sostenne molte preture, e da ultimo fu eletto senatore. Ritornato alla
nativa Carate per rimettersi in salute vi mori nel 1625 e qui in chiesa fu
sepolto. Alcune famiglie per via di cariche o di censo si mantennero in
chiara nobiltà, le altre scesero nell'oscurità e finirono coll'abbandonare il
distintivo " de Aliate ", conservando il solo cognome generico di
Confalonieri. La nobile casata patrizia dei Confalonieri d'Agliate si estinse
nei marchesi Cusani. La villa e la chiesuola della Rovella, dopo essere state da
ultimo proprietà dei conti Albertoni, finirono acquistate da una congregazione
religiosa e trasformate in una Casa di Riposo per signore.
*** Da Agliate trasse invece origine
la casata milanese degli Alliati (de Aliate), che al pari dei Casati,
Giussani, Robbiani, ecc. assunsero il cognome dal luogo di provenienza. I
cognomi si formarono dopo il Mille col sorgere e svilupparsi del Comune
cittadino. Nel precedente periodo curtense e feudale col sistema di vita chiusa
non era avvertita la necessità di pubblicamente differenziarsi gli uni dagli
altri. Non così col Comune. Le molteplici magistrature comunali alle quali
venivano man mano a partecipare tutte le classi cittadine accresciute
dall'immigrazione di nuove genti dal contado; le industrie e i commerci che
moltiplicavano l'intrecciarsi dei rapporti sociali; il battagliare dei partiti
fra di loro; il mutare di idee e di costumi fece si che si costituissero le
diverse consorterie o casate, e che ognuna si distinguesse con diverso cognome
familiare. I cognomi provengono infatti o dal luogo di origine, o dai
soprannomi, o dalle arti o mestieri esercitati, ecc. e sorsero dapprima nelle
città, prerogativa dei nobili e dei ricchi, per quindi necessariamente
diffondersi in tutte le classi sociali. Il nome di persona precede sempre il
cognome. Della parentela degli Agliati o Alliati abbiamo nel 1167 al 22
maggio la presenza di tre individui quali testimoni da parte del Comune di
Milano nella redazione dell'atto solenne con il quale le città di Cremona,
Milano, Bergamo, Brescia giurarono concordi patti d'alleanza coi
Lodigiani. Altri Agliati emersero nei secoli XII e XIII nelle cariche
cittadine. Nel 1209 quattro fratelli "de Aliate" Gallino, Burgondio, Pietro e
Ruffino, per particolari benemerenze, furono dall'imperatore di Germania Ottone
IV creati conti Palatini di Milano (22). Donde le
sopravvenute leggendarie dicerie sui conti d'Aià del secolo XIII. Non va
confuso, equivocando, il cognome col luogo, come ha fatto qualcuno ritenendoli
conti del luogo di Agliate, e men che meno chi ha ravvisato in quei conti i
Confalonieri d'Agliate. Gli Agliati, a differenza dei Confalonieri, non
lasciarono tracce in luogo e nemmeno nei dintorni. Ci furono, per verità, se
non i conti, i marchesi di Agliate. Mentre la parte della pieve al di qua del
Lambro, come si è detto, veniva assegnata fin dal 1478 ai conti Balbiani,
l'altra metà situata al di là del Lambro non sfuggì neppur essa dall'essere più
tardi infeudata dal governo di Spagna continuamente bisognoso di denaro. Infatti
Flaminio Crivelli, figlio di Tiberio, divenuto feudatario di Agliate e di altri
paesi della pieve al di là del Lambro con investitura del 1° ottobre 1651,
ottenne da Filippo IV di Spagna, con diploma 20 febbraio 1654 interinato il
successivo 16 luglio, il titolo di marchese da appoggiarsi su Agliate, per sé e
discendenti maschi legittimi o illegittimi in linea primogenita. Ne venne la
casata dei marchesi Crivelli d'Agliate, che tuttavia tenne il suo centro feudale
ad Inverigo (23)
CAPITOLO III
La diffusione del cristianesimo nella Brianza -
Origine della pieve di Agliate - S. Dazio - La pieve durante la dominazione
longobarda - Le riforme Carolinge - La vita regolare canonica nel clero.
L'editto promulgato dall'imperatore
Costantino a Milano nel 313 chiuse l'era delle persecuzioni, e rese meno
difficoltosa la propaganda del cristianesimo nelle regioni
dell'Occidente. Tuttavia tardiva e lenta fu la sua diffusione nei pagi e nei
vici delle nostre campagne, e ciò, anche senza tener calcolo dell'intermezzo di
Giuliano l'Apostata, sia perché i vescovi si trovavano in quel tempo impegnati a
lottare non solo con l'idolatria, ma particolarmente coll'arianesimo per cui
c'era molto da fare nelle città; e sia perché i nostri rurali di stirpe
gallo-celtica, dispersi nella boscosa campagna di allora, con non facili
comunicazioni con Milano, si dimostravano per lo più refrattari al nuovo culto,
tenaci delle loro tradizioni religiose, familiari e sociali. Dobbiamo
scendere verso l'ultimo quarto di quel secolo, a S. Ambrogio, per trovare una
situazione veramente favorevole all'espansione del cristianesimo nelle campagne.
Le parti si erano invertite: l'autorità civile e religiosa si davano
efficacemente la mano nella lotta contro il paganesimo duro a scomparire. Benché
non consti espressamente, è lecito pensare che il nostro santo patrono non abbia
trascurato l'agro della sua diocesi. Nel De officiis, I, 50, sembra
infatti che si accenni a sacerdoti rurali. E' comunque verso il finire del IV
secolo che deve essersi iniziata una metodica e proficua predicazione nella
campagna milanese, e in quella delle altre diocesi lombarde dai rispettivi
Vescovi (Como, Brescia, Novara, ecc.): ormai gli abitanti delle città erano in
gran parte cristiani. Sia come si vuole, una sol cosa è veramente certa, ed è
che le prime memorie cristiane nella Brianza datano dalla seconda metà del
secolo quinto. Di questo tempo sono le più antiche iscrizioni cristiane che
si conoscono, e rinvenute là dove sorsero le primitive chiese battesimali di
Galliano, Garlate, poiché allora era in uso farsi seppellire presso le chiese.
Di preti vi è menzione nella prima metà del VI secolo a Galliano, Lecco,
Agliate, e fors'anche fin dall'ultimo quarto del secolo precedente a Galliano e
a Garlate. Ciò proverebbe che non solo nei primi tre secoli, secoli di
persecuzione, ma ben anche nel quarto secolo inoltrato il cristianesimo facesse
scarsi progressi nelle nostre popolazioni di campagna. Infatti in quei primi
quattro secoli nulla di cristiano si incontra nella Brianza e nelle zone
circonvicine; né una tomba, né un rudere di sacro edificio, né altro che
richiami la presenza della religione di Cristo, mentre d'altra parte continuano
di tanto in tanto a venire alla luce tombe od oggetti pagani. Con questo non
intendo negare che ci possono essere stati qua e là dei cristiani fra i rurali
fin dal IV secolo, ma dovevano ancora essere ben pochi, diversamente ce ne
sarebbe rimasta qualche traccia (24). Ad ogni modo
quando precisamente, e in qual modo, e da chi sia stato introdotto nella Brianza
il cristianesimo non si conosce, né forse si saprà mai.
*** Coll'affermarsi della nuova
religione, al delubro pagano si sostituì la chiesa battesimale; e, come si è
detto, il territorio del pago formò, per lo più, la prima parrocchia rurale o
pieve, dipendente dal vescovo diocesano. Quella di Agliate fu tra le più vaste
ed importanti; comprendeva i Vicariati foranei di Besana e di Carate. Per la
sua veneranda antichità, direbbero gli atti del visitatore regionale Giovanni
Calchi (1742), il prevosto di Agliate occupò nei Sinodi Diocesani il posto più
distinto come risulterebbe, sempre al dir del Calchi, dai Libri del Maestro
delle Cerimonie nella Metropolitana. Si può ritenere quasi per certo che,
quando ad Agliate fu predicato il Vangelo, nel luogo vi dovesse sorgere un
delubro o santuario pagano dedicato ad una divinità, quale fosse impossibile
dire, molto venerata dalla gente dei dintorni. Subentrato il culto al vero Dio,
la stessa opportunità pratica avrebbe indotto a far sì che Agliate, a preferenza
di altre località circonvicine di maggior popolazione, divenisse capo pieve,
continuando in senso cristiano la sua antica funzione di capo luogo pagense. A
parer mio, è questa l'unica e vera ragione, né saprei indicarne altra, del
perché il minuscolo e allora boscoso luogo di Agliate sia divenuto capo pieve.
Ed è altrettanto logico il supporre come si è accennato, l'esistenza di un ponte
che, allacciando le sponde del fiume, unisse le due parti del
territorio. Un'iscrizione cristiana di Agliate, attribuita al 540, ci
ricorderebbe la madre di un prete chiamato Garibano. Congetturando su questo
prete, e sulla diceria che S. Dazio (arcivescovo di Milano dal 528 al 552) sia
nato in Agliate, si è pensato, come non inverosimile, di attribuire l'erezione
della basilica al secolo VI e allo stesso S. Dazio. Scrive infatti il
Corbella: "chi ne proibisce di credere o di almeno supporre che questa
basilica d'Agliate, costruita dalle fondamenta dal suo S. Dazio a metà del
secolo VI, e forse da altri prima, dopo tre secoli e precisamente nel IX secolo
non siasi trovata nel bisogno di venire restaurata, o che siasi modificata
secondo il gusto dell'architetto del munificentissimo Angilberto II (che ebbe
trentasei anni di pontificato) o che poi Ansperto stesso, volendo stabilire qui
una collegiata, non abbia anche ordinato un restauro e questo sul modello del S.
Ambrogio? " (25).
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Battistero
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Che S. Dazio sortisse i natali in Agliate dalla famiglia degli
Alliati non solo non è provato, ma ci mancano seri indizi per supporlo. È
significativo il fatto che di lui non vi è cenno non solo nelle visite
pastorali, ma che nessun altare, nessuna immagine o affresco in chiesa, nessuna
festa in suo onore, nessuna antica tradizione od altro, che comunque lungo i
secoli lo ricordi in Agliate. Altri non meno fantasticamente lo vorrebbero
della famiglia degli Alciati. Sono tutte favole che fanno il paio con quella che
direbbe S. Simpliciano nato a Beverate, presso Brivio, dalla famiglia dei De
Capitanei, e con l'altra che farebbe S. Mona nativo di Corbetta dalla stirpe dei
Borri, ed altre consimili. Il nome ufficiale di Borgo S. Dazio, dato alla
vecchia porzione dell'abitato d'Agliate presso il fiume, e formato di poche
vecchie case addossate l'una all'altra, non è antico ma recente, voluto dal
prevosto Luigi Colombo, il quale ci teneva a ritenere agliatese S. Dazio. Il
luogo, che prima non aveva distinzione di sorta, si chiamava volgarmente"el
borg di och". Nondimeno, pur prescindendo dall'epigrafe del 540 e dalla
leggenda di S. Dazio, si può ragionevolmente ammettere che in Agliate sorgesse
già in quel tempo qualche sacro edificio battesimale (non però l'attuale
basilica e battistero), per il fatto che verso la metà del secolo VI la Brianza
era ormai pressoché tutta cristiana, per quanto perdurassero certe usanze pagane
dure a scomparire, e il suo territorio diviso in pievi per la necessaria
assistenza religiosa delle rispettive popolazioni, non essendo più possibile
scendere tutti gli obbligati in città alla chiesa diocesana per il battesimo e
le altre funzioni di precetto. Le pievi briantine o primitive parrocchie
rurali sarebbero pertanto sorte lungo il secolo quinto e nella prima metà del
seguente dove prima e dove dopo, a seconda delle necessità e delle circostanze,
sistemandosi via via in meglio col passare del tempo. E' evidente che l'erezione
di una pieve richiedeva, per lo meno, una larghissima se non totale, espansione
del cristianesimo in una data zona o distretto rurale. Tutto questo lo
affermiamo sempre in linea generica. Come non è possibile per deficienza di
documenti conoscere con certezza quando e come prese a diffondersi il
cristianesimo nella Brianza, altrettanto impossibile è precisare l'anno in cui
sorsero e si organizzarono nelle campagne le prime chiese battesimali e non
battesimali. Si mettono in campo diverse ipotesi, ma in realtà, compresa pur
quella che si basa sul santo titolare della chiesa stessa (26), per gran parte
non sono che vedute personali, le quali in sostanza lasciano sempre
incerti. Capita poi talora, quando ci si appassiona con fervore ad una data
ipotesi, di sopravvalutare, anche senza volerlo, fatti ed indizi, rischiando di
fare dir loro quello che interessa che dicano. Sia come si voglia, nulla si
oppone, ripeto, a che si possa, con tutta probabilità, ammettere in Agliate,
verso la metà del VI secolo un centro plebano battesimale col relativo clero,
composto di una o più persone viventi in una certa qual comunanza di vita,
secondo l'uso ecclesiastico allora in vigore presso il clero della sede
episcopale diocesana, sulla quale si sono modellate le nostre pievi. Quella di
Agliate fu dedicata ai santi apostoli Pietro e Paolo. Quest'ultimo, come per
tante altre chiese, sembra sia stato aggiunto più tardi. Per il fatto di
questa dedica, la si vorrebbe da taluno sorta verso la metà del secolo VII in
pieno dominio longobardo, e territorialmente a spese di quella di Missaglia
(dedicata a S. Vittore) e fors'anche in parte di quella di Mariano (dedicata a
S. Stefano) (27). Il
congetturarla eretta in quel tempo solo perché dedicata a S. Pietro, non ha, a
mio avviso, una seria base di consistenza. Risulta infatti dalla storia
ecclesiastica che il culto a questi due principali apostoli (Pietro e Paolo)
risale fino ai primi secoli della Chiesa, ed anche le nostre popopolazioni
indigene lo praticavano già prima dell'invasione dei Longobardi. A meno che si
possa documentare che la nostra pieve sia stata veramente eretta verso la metà
del secolo VII. Il che allo stato attuale delle ricerche storiche non è
possibile.
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Pianta della basilica, battistero e campanile.
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*** Delle nostre pievi durante il
dominio dei Longobardi, che durò oltre due secoli (568-774), ben poco si
conosce. Mentre consta che regnanti e signori Longobardi, dopo la loro
conversione al cattolicesimo, incominciata con la regina Teodolinda sul cadere
del VI secolo e ultimata verso la fine del seguente, hanno eretto chiese private
e talora anche monasteri e xenodochi, - ed infatti per quello che riguarda la
Brianza si attribuisce a Teodolinda la chiesa di S. Giovanni Battista in Monza,
al re Cuniberto il monastero ossia la collegiata di San Giorgio in Cornate
d'Adda, al re Desiderio la chiesa di S. Pietro sul monte sopra Civate, ecc., -
nessun cenno si ha di erezione di nuove pievi né da parte dei Longobardi
e nemmeno dei nostri arcivescovi, all'infuori di quella di Desio che si vorrebbe
fondata dall'arcivescovo Giovanni Buono nel 649. La fondazione e la
distrettuazione delle pievi cristiane, come delle diocesi, fu sino dalle origini
di spettanza dell'autorità ecclesiastica, e la Chiesa per sua natura fu sempre
incline a spirito conservativo, come si può desumere anche da qualche lettera
del pontefice S. Gregorio Magno (Epist., lib. IX, lett. 115,
116). Forse ai Longobardi non interessava gran che la fondazione di pievi, in
quanto divisero i loro territori in Iudiciarie, Centene e
Decanie. Non si può tuttavia escludere in modo assoluto che, in via di
eccezione, possa essere stata eretta qualche altra pieve nella campagna milanese
oltre la sopradetta di Desio, oppure trasferito qualche centro plebano in altro
villaggio più importante della stessa pieve, o fors'anche cambiato qualche santo
titolare. Comunque sia, sta il fatto che, tranne per la pieve di Desio, non
vi è parola, ch'io sappia, dell'erezione di nuove pievi né in Brianza né altrove
nei territori confinanti, nemmeno in dedicazione a S. Michele e a San Giorgio,
due santi tipici del culto longobardo (28). E' ovvio, che
se fossero state erette, ce ne sarebbe rimasta in un modo o nell'altro qualche
memoria, come rimase per altre loro chiese private. Si può pertanto
ragionevolmente supporre che le pievi, come le diocesi, non andarono soggette,
nel loro complesso a radicali rimaneggiamenti, ma soltanto a confusioni o ad
usurpazioni nei loro territori di confine. Nel secolo VII vi sarebbe stata
un'immigrazione di monaci e di preti orientali nel milanese, scacciati dai loro
paesi dalle guerre islamiche, i quali si sarebbero fusi col nostro clero. Ma
quale influsso abbiamo potuto avere sulla disciplina ecclesiastica e sul rito
ambrosiano è difficile precisare. Per quello che riguarda particolarmente le
nostre pievi briantine, nulla sappiamo di certo, benché qualcuno abbia pensato
di far rimontare alla prima metà del secolo VII le pievi di Incino e di Oggiono,
dichiarandole di ispirazione tricapitolina e forse aventi rapporti con la
diocesi di Como, in quanto ambedue dedicate a S. Eufemia (29). Ma, ripeto, non
sono che incerte congetture. D'altra parte si stenta a credere che Incino,
località importante già dal tempo della dominazione romana, possa aver aspettato
fino al VII secolo ad avere un sacro edificio plebano battesimale. Altrettanto,
presso a poco, si dica per Oggiono dove non mancano memorie romane.
*** E' per altro certo che i
Longobardi lasciarono una scia di disordine nel campo religioso (imbarbariti i
costumi, edifici sacri deperiti, rilassatezza nella disciplina ecclesiastica,
confusioni e usurpazioni nei territori di confine delle diocesi e delle pievi,
ecc.), come ce lo provano le riforme intraprese, dopo la fine del regno
longobardo, dai Pontefici, dai Vescovi, dall'imperatore Carlo Magno e successori
(30). Tra
l'altro, nell'824 l'imperatore Lotario volle che ogni chiesa plebana avesse ben
definiti i confini del suo distretto, e precisati i villaggi dai quali esigere
le decime. Saggio decreto, osserva il Giulini, perché così le pievi furono
precisate nel loro ambito territoriale e giurisdizionale, e tali si
conservarono, fatta qualche rara eccezione, lungo i secoli, tanto più che i
governi stessi per pratica comodità amministrativa adottarono nel civile tale
circoscrizione territoriale (31). Successivamente
nella Dieta di Pavia dell'850, tenuta alla presenza di Ludovico II ed alla quale
partecipò l'arcivescovo di Milano Angilberto II, si stabilì al c. 13 che ad ogni
pieve dovesse sempre presiedere un arciprete il quale avesse cura del popolo e
dei sacerdoti residenti presso i titoli minori della stessa pieve, anche se il
Vescovo credesse di farne a meno. Nel Capitolare di Pavia dell'876, presenti
Carlo il Calvo e l'arcivescovo milanese Ansperto, al c. 7° si richiamò l'obbligo
a tutti i laici, compresi i nobili ed i potenti, di partecipare alle sacre
funzioni della propria chiesa plebana, e che nessuno osasse far celebrare nei
propri oratorii senza licenza del Vescovo. Qui si tratta delle chiese private
signorili sorte specialmente coi Longobardi e coi Franchi. Titoli minori
erano dette le chiesuole vicane costruite nei singoli villaggi della pieve, la
quale continuava ad essere la primitiva parrocchia rurale. La buona riuscita
di questi ed altri richiami era condizionata ad una regolare vita canonica del
clero, che l'autorità religiosa e civile si sforzò di imporre fino dalle prime
riforme. E' noto che l'imperatore Carlo Magno voleva " omnes clerici aut
monaci aut canonici " (Capitolare del 789). Si è scritto che il clero
agliatese abbracciasse tale sistema di vita durante l'episcopato di Angilberto
II nella prima metà inoltrata del secolo IX, mentre altri ritennero che ciò sia
avvenuto alquanto dopo con l'arcivescovo Ansperto. Si trattava di un vivere
quasi monacale che riusciva pesante alla maggior parte dei sacerdoti. Infatti
quel tanto di vita in comune che, qua e là specialmente nelle cattedrali, si
riuscì ad introdurre non ebbe lunga durata fors'anche perché il secolo X fu uno
dei più agitati della vita milanese. L'ambiente sociale era ancora, si può
dire, quasi semibarbaro. Verrà rimesso in vigore più tardi, come mezzo per
una maggior santificazione del clero, dal pontefice Gregorio VII († 1085),
entrando fra di noi nella pratica sul finire del secolo XI. Ma, trascorso un
certo lasso di tempo incominciarono a fermentare nuovi germi evolutivi che
avrebbero non solo condotto allo sfasciamento della vita canonica, ma della
stessa pieve.
CAPITOLO IV
Erezione delle basilica - La cripta
- Il battistero - Le sacre Reliquie.
Fiancheggiata dal campanile
nuovamente eretto in stile basilicale in sostituzione dell'altro pericolante del
secolo XVII, che a sua volta aveva preso il posto del pilastrello arcuato
collocato sul tetto della chiesa con una piccola campana, la basilica " si
presenta - uso le parole stesse dell'Arslan - a tre navate rette da colonne
sormontate da rozzissimi capitelli, o addirittura da frammenti architettonici
sostenenti ampie arcate, coperta tutta da tetto a cavalletti. L'abside centrale
è preceduta da un presbiterio coperto da una volta a botte, e le due cappelle
absidate laterali da una volta a crociera nervata. La cripta, dal modo come le
volte tagliano l'arco delle bifore che vanno verso la chiesa, sembrerebbe
posteriore (ma certo di poco) alle stesse. Il battistero è, in pianta, un
poligono ad otto lati, uno dei quali, più lungo degli altri, immette in una
abside semicircolare. E' coperto da una volta a sezione circolare (32). L'esterno
delle due costruzioni ha carattere molto arcaico. Esso rivela un'analoga
struttura di ciottoli a spinapesce e pietre rozzamente squadrate entro
spessissimo letto di malta. I fianchi della basilica legano perfettamente con la
facciata (restaurata) e con la parete absidale; ed è notevole che i fornici
intorno all'abside della basilica e al battistero, ripetono appunto il ritmo
notato nel battistero di Novara " (33). Quando e da
chi venne fatta erigere l'attuale basilica col suo battistero? Chi ne fu
l'architetto? Si naviga nell'incertezza. Il Giulini ci fa sapere che " uno
scrittore dei nostri arcivescovi, la cui opera da me si conserva manoscritta,
narra che la Canonica di S. Pietro nel luogo di Agliate, capo di una delle
nostre pievi, è stata fondata da Ansperto medesimo. Io non so a qual fondamento
egli abbia appoggiato la sua asserzione; nondimeno, poiché quell'autore è antico
già di tre secoli, non è da disprezzarsi tal notizia, in una cosa la quale per
sé non patisce alcuna difficoltà " (34). In base a
questo scritto, che non trova conferma in nessun'altro cronista o documento, si
è ritenuto da non pochi che l'arcivescovo Ansperto da Biassono durante il suo
pontificato (869-881) facesse erigere non solo una canonica propriamente detta,
ma ben anche un correlativo nuovo sacro edificio, così che i canonici potessero
degnamente celebrare, e i fedeli comodamente parteciparvi. E' un'asserzione
che può avere del verosimile. Infatti, se strettamente parlando, canonica
significa abitazione dei canonici, in largo senso la troviamo pure usata nelle
carte antiche a significare tutto il sacro complesso edilizio plebano compresa
la chiesa. D'altra parte l'ampia basilica d'Agliate non poteva essere opera
dell'esigua popolazione locale, ma di un ricco e potente signore com'era appunto
Ansperto, al quale la pieve d'Agliate non poteva essere sconosciuta, poiché a
sud confinava con Biassono. Il che potrebbe trovare un certo quale appoggio
nel fatto che poco dopo, nel secolo seguente, come si è detto, si avrebbe avuta
la presenza dei Confalonieri, della stirpe di Ansperto, investiti del
Capitaneato della pieve d'Agliate, con un forte castello nel soprastante
territorio di Costa, dando origine alla nobile stirpe dei Confalonieri di
Agliate.
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Cripta.
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Il ravvisare nella basilica elementi di architettura romanica, non
sarebbe tuttavia tale da rendere inverosimile la sopraddetta notizia del
Giulini, sia perché si tratta di elementi non del tutto ignoti alle maestranze
costruttrici di poco anteriori al secolo X, e sia perché possono essere stati
introdotti, almeno in parte, successivamente in occasione di restauri o
rifacimenti, come si può desumere da quanto scrive il Corbella (35). Comunque
possa essere avvenuto, il Cattaneo, il Porter, il Lasteyrie, lo Schaffran, il
Thuemmler, ed altri, si attennero per l'erezione della basilica alla seconda
metà inoltrata del secolo IX (36). Altri pur non
meno autorevoli studiosi (il Toesca, il Solmi, il Perogalli, ecc.) la pensarono
opera del secolo X, e in questo caso forse dei Confalonieri allora Capitanei
della pieve di Agliate; ed altri ancora quali il De Dartein, il Verzone, lo
Zemp, lo Steimman-Brodbeck, e ultimamente l'Arslan, ritennero di poterla
assegnare al secolo XI in quanto vi si riscontrano diversi elementi di schietta
architettura romanica. Quest'ultima supposizione sarebbe attualmente, per lo
più, la preferita dagli studiosi. Senonché anche gli argomenti stilistici,
come si è accennato, non sempre riescono sicuri. " Mancando dati storici, si
ricorre volentieri ad argomenti stilistici, e lo stesso si vuol fare quando si
ricerca l'età di un monumento. Ma spesso si incorre in un circolo vizioso,
attribuendo ad una certa età e a un certo paese un monumento per la somiglianza
con altri che furono a loro volta dotati o topograficamente situati soltanto in
base a considerazioni stilistiche, è sempre da tener presente che in
diversissimi luoghi e diversissime età si hanno spesso fenomeni artistici molto
simili " ecc. (37). All'Arslan,
sembra " di poter ritenere che la chiesa di Agliate sia un prodotto provinciale
- e sia pure alla fine, al più presto, del secolo X - a quella che poté essere
allora la basilica ambrosiana " (38). La stessa
insigne basilica di S. Vincenzo in Prato a Milano, che ha non poche
rassomiglianze con quella di Agliate, e già pur essa ritenuta del secolo IX, ora
la si vorrebbe spostare al secolo XI. Per l'Arslan "le due chiese di Agliate
e di S. Vincenzo di Milano rappresenterebbero due distinti momenti di uno stesso
secolo: la prima attua con mezzi meno raffinati una struttura arcaica nelle
proporzioni, ma aggiornata ai tempi in molti particolari costruttivi; la seconda
appare più progredita nel modulo generale, e continua a ripetere nelle grandi
finestre paleocristiane della navata centrale, un ritmo più antico. E forse non
si tratta qui tra le nostre chiese che furono erette nella diocesi milanese
nell'XI secolo, che di due tra le tante svarianti di un linguaggio del quale ora
riesce impossibile misurare l'intera portata; riflettente certo, in quel secolo,
un ecclettismo che dovette precedere la comparsa del potente e coerente gusto
dell'architettura romanica milanese. Tanto sembra difficile oggi, dati gli
incostanti caratteri stilistici e tecnici, quanto è invece facile ravvisare i
caratteri del maturo romanico " (39). E' certamente
difficile precisare quando veramente incomincia e quando finisce una forma
d'arte. Ad ogni modo la datazione della basilica d'Agliate, nelle diverse
ipotesi degli studiosi, verrebbe ad oscillare tra la seconda metà inoltrata del
secolo IX e il XI, e non avrebbe a che fare con precedenti costruzioni
locali. L'ultima inequivocabile parola non è ancor detta, né forse mai lo si
potrà.
*** Appena posto piede sul sagrato
si ha davanti la facciata della chiesa, sobria e semplice nei suoi elementi
basilicali. La parte centrale, sopraelevata sulle altre due laterali, ha due
finestre arcuate e più in alto una piccola apertura a forma di croce. Delle
tre porte frontali, quella di mezzo è adorna di un artistico portale nuovo
scolpito su modulo di precedenti antichi resti di intrecciature curvilinee;
tutte e tre con una moderna semilunetta a mosaico delle quali l'aquilonare con
la figura di S. Pietro, la centrale con quella di Cristo, e la meridionale con
S. Paolo.
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Colonna miliare romana.
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*** Dal piano del sagrato si scende
nella basilica per tre gradini (nel passato per più del doppio ossia prima che
si sistemasse il piazzale antistante e si rialzasse il pavimento della chiesa),
e lo sguardo è tosto attratto dalla così detta frammentarietà del sacro
edificio. Gli elementi delle colonne (plinti, fusti, capitelli) per la
materia e le dimensioni hanno molto dell'eterogeneo. Donde provenga questo
materiale di ricupero, usato per la fabbrica, non si conosce. Si può
ragionevolmente supporre che parte sia stato raccolto sul luogo, e parte
altrove. A destra entrando, il capitello della prima colonna fa parte di
un'ara sacrificale romana tagliata e capovolta, e lascia leggere le ultime
parole di un'iscrizione:
Suis Omnibus V.S.L.M.
La stessa colonna avrebbe per base
un'altra ara romana, scoperta quando si fece lo sterro per il nuovo pavimento.
Oggi non è più visibile, ma il Corbella ce ne ha conservato il disegno e
l'epigrafe (40). Similmente il
capitello della quarta colonna, sempre a destra entrando, al dir del Biraghi,
sarebbe il resto di un cippo funebre romano con i suoi cornicioni, o secondo
altri si tratterebbe di un'ara romana guasta dallo scalpello che ne arrotondò
gli spigoli. Il Biraghi vi avrebbe letto nel 1860 queste parole, ma delle quali
oggi nulla si vede:
D.I.S.A. (crum) SALINUS.
MAS...
La medesima colonna sembra abbia per
base la parte superiore di un'ara thuricrema, sulla quale abbruciavasi l'incenso
alla divinità pagana.
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Inscrizione della colonna miliare romana.
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*** A sinistra, la quinta colonna presso il presbiterio porta un
capitello alquanto guasto, ma finemente lavorato del quale si ignora la
provenienza. Si scrisse che in origine servisse a decorare qualche tempio
dedicato a Nettuno di cui reca gli emblemi, e cioè il tridente, i delfini, la
conchiglia: il tutto inquadrato tra foglie di accanto. Qualcuno ha pensato
infatti che in Agliate sorgesse un tempio dedicato a Nettuno, al quale sarebbe
poi subentrata l'attuale basilica. E' un pensamento per sé non del tutto
inverosimile, sempreché il capitello non provenga d'altrove. Benché Nettuno
sia propriamente il dio del mare, tuttavia poteva essere anche stato venerato
come il dio delle acque in generale (sorgenti, fiumi, laghi). Ma nel nostro caso
si tratta di una congettura quanto mai incerta, poiché quel capitello potrebbe
anche avere un significato cristiano. Non di rado ad indicare G. Xsto veniva
usato il delfino, comunemente tenuto come il pesce amico e salvatore dell'uomo,
e nel cimitero di Callisto vi è un noto affresco che presenta un delfino
attorcigliato ad un tridente. Il tridente era un altro modo di rappresentare
la croce in modo velato: infatti se al tridente togliamo le due asticelle
laterali rimane la vera croce (41). Di seguito,
dalla quarta colonna la cui base pare l'avanzo di un'ara o di una cornice
romana, si arriva alla seconda colonna - una milliaria romana - la quale, dal
segno II che reca scolpito, si vuole segnasse il secondo miglio. Il
milliarium equivaleva a mille passi romani, ossia a m. 1478 e 70. Da
dove?... Non è possibile saperlo perché non sappiamo se scoperta in luogo o
altrove. Il Mommsen ha opinato che segnasse il secondo miglio della strada
Milano Como, e qui trasportata e impiegata nella fabbrica. Ma potrebbe anche
darsi che indicasse la distanza su qualche altra strada di una certa importanza.
E' noto che oltre la Milano-Como, altre notevoli vie percorrevano il territorio
dell'alto milanese nella seconda metà del secolo IV, e qualcuna di queste doveva
probabilmente attraversare il ponte di Agliate. Si è perciò anche sospettato che
potesse segnare il secondo miglio da Valle Guidino (42). La colonna reca
tre iscrizioni cesaree: due riguardano Giuliano l'Apostata, e la terza il
tiranno Magno Massimo e suo figlio Flavio Vittore: indizio che fu adoperata tre
volte in diversi tempi e circostanze. La prima, leggibile, in giusta visuale,
dice:
PRO. SAL. D. N. CLA. IVL.
PER. SEM. AVG. II (Pro salute domini nostri / Claudi Iuliani
perpetui / Semper Augusti / II).
Delle altre due capovolte, la prima, ma
ultima in rapporto al tempo:
D. N. MAG. MAXIMI ET. FL.
VICTOR SEMPER AVG. B.R.P.N. (Dominus noster Magnus Maximus / et
Flavius Victor / semper Augusti / Bono Rei Republicae nati).
L'inferiore:
D. N. CL. IULIANO. PIO AC FELICI.
SEMPER AVG. B. R. P. N. II (Domino nostro Claudio Iuliano, Pio / ac
felici, semper / Augusto. Bono Rei Pubblicae nato / II).
Le due epigrafi di Giuliano, poiché
recano il titolo di Augusto si devono porre tra il 361-63. La prima dice solo
pro salute, è quindi un semplice augurio; la seconda lo chiama
pio, e nato per il bene della cosa pubblica, cioè dell'impero. La parola
pio fu posta a sua lode in quanto restauratore della romana religione?...
Parrebbe di sì, poiché nella Numidia venne reperta un'iscrizione nella quale
Giuliano è esaltato quale Restauratore della Libertà e della Romana Religione, e
un'altra in Oriente lo celebra Maestro di filosofia. Le città dell'Occidente,
esasperate dalle gravezze e angherie imposte da Costanzo, furono umanamente
trattate da Giuliano, restituendo loro i dazi e i fondi (vectigalia civitatibus
restituta cum fundis), o in altre parole i beni camerali, e sollevandole
dall'aurum coronarium. Certamente anche per questo, oltre che pio, fu
dichiarato sovrano nato per il bene dell'impero. L'imperatore Giuliano, a
parte la fisima di voler restaurare il culto pagano, impresa ormai impossibile,
per cui vedeva di malocchio il cristianesimo e l'osteggiava, fu un principe non
privo di buone qualità. In Occidente l'azione religiosa di Giuliano per il
ristabilimento del paganesimo non si è fatta gran che sentire. Troppo breve fu
il suo regno, e per di più costretto a seriamente pensare agli avvenimenti
dell'Oriente (43). L'epigrafe
che si riferisce a Massimo e al figlio Vittorio è del 387-88. L'imperatore
Massimo, col quale ebbe a che fare il nostro S. Ambrogio, era generale delle
legioni romane che presidiavano la Britannia, quando nel 383 si proclamò Augusto
e passò nelle Gallie dove sconfisse e uccise l'imperatore Graziano. Nel 387
invadeva l'Italia strappandola a Valentiniano il giovane. Nell'anno seguente
l'imperatore Teodosio lo vinse e lo fece sopprimere. Nel settembre di
quell'anno cadeva pure ucciso nelle Gallie Flavio Vittore. L'iscrizione li
proclama con il solito encomio, nati per il bene della cosa pubblica.
*** Dalle colonne l'occhio corre
verso l'altare maggiore e vede un bell'ambone alla foggia antica dalla parte del
Vangelo. E' moderno, e collocato durante i restauri. Dovrebbe rassomigliare
all'originale. Si legge infatti nella visita del cardinal Federico Borromeo
del 12 luglio 1608 che in cornu Evangeli vi stava un tempo un ambone
antico, eretto parte in pietra, parte in marmo, e parte in laterizi, ornato di
un'aquila marmorea. Venne distrutto dal Sac. Andrea Isimbardi, parroco di Costa
e vice parroco di Agliate al tempo di S. Carlo (44). Al suo posto
si collocò un semplice pulpito di legno di forma quadrata. Conformi allo
stile basilicale si affacciano gli altari, ma sono moderni. I due minori
laterali precedenti, di stile neoclassico, furono cambiati durante i restauri
del 1893-95. L'altar maggiore fu invece rifatto dal prevosto Leonardo Corti
nel 1957, sacrificando il precedente neoclassico " tutto di finissimi
marmi, scrive il Corbella, come brocadello di Spagna, alabastro di Busca, bel
ghiaccio, bardiglio, Carrara, con fregi d'oro scolpiti da mano maestra, con
tempietto di svelta architettura, due statue d'angeli adoranti, due putti, che
sostengono la croce, di marmo statuario di Carrara, pregiatissimo lavoro
attribuito al Somaini (45). Dev'essere
costato una somma quest'altare, ed è l'amore degli Agliatesi, che non possono
rassegnarsi all'idea di dovervi presto rinunziare quando sarà sostituito da
altro con le quattro colonne e il suo bravo ciborio a stile basilicale, come
quello di S. Pietro in Civate e di S. Ambrogio in Milano " (46) Era infatti
bellissimo, e lo scrivente lo ebbe ad ammirare più volte (47). Tutte le
finestre ad arcotondo sono strombate, tranne le due bifore interne prospicenti
la cripta.
*** La basilica ci pone davanti agli
occhi antichi dipinti interessanti, non fosse altro per il contenuto
iconografico, benché sciupati e corrosi. Gli affreschi, che si vedono sopra i
due archi presso l'ambone, rappresenterebbero, nello scomparto superiore, la
creazione di Adamo e di Eva, o, secondo altri, il Cristo che conforta l'umanità
raffigurata nell'uomo nudo; nello scomparto inferiore si potrebbero ravvisare
l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività di N.S., l'Annuncio ai pastori (?),
la Madonna col Bambino. Di bell'effetto le fasce a meandri che separano gli
scomparti: nella prima in alto, sopra le finestre, che corre tutta intorno alla
navata centrale, si alternano elementi simbolici con immagini di santi; nella
seconda, o di mezzo, altre figure simboliche, quali il pavone, l'arca di Noè, la
brocca con l'ulivo, il pesce, la colomba. Queste pitture che per gli ornati
rassomiglierebbero a quelle della chiesa di Galliano presso Cantù, e perciò
degli ultimi anni del secolo XI o dei primi del seguente, hanno purtroppo, a dir
del Toesca, scarso valore per la storia dell'arte essendo state ritoccate da un
pessimo restauratore (48). Altri simboli
cristiani floreali (l'alloro, il mirto, le spighe) ricorrono nella decorazione
dell'arco del presbiterio su fondo ceruleo coi quattro emblemi degli
evangelisti: l'aquila, l'angelo, il leone, il vitello. Al sommo dell'arco sta la
figura di Cristo Redentore, e una mano aperta in alto pure simbolica. Non è
mancato chi ha voluto vedere nella basilica tutto costruito in base al
simbolismo cristiano (nel numero e nella forma delle finestre, dei gradini,
delle navate, dei lati delle colonne, degli archi, delle sagome, ecc.),
sbizzarrendosi in varie ed impensate interpretazioni. Il visitatore regionale
Baldassare Cepolla (o Cipolla) nel 1597 ha lasciato scritto che la cappella
dell'altare maggiore era stata da poco tempo dipinta; e dalla visita di Federico
Borromeo nel 1608 veniamo a conoscere che quelle pitture rappresentavano Gesù
Crocifisso, S. Ambrogio, la Madonna con in grembo Gesù deposto dalla Croce: il
tutto su fondo ceruleo. Dipinti di poi scrostati, per lasciarne emergere
altri più antichi. La parete meridionale del presbiterio ci ha conservato una
logora figura della Madonna con il Bambino lattante. Il fondo dell'abside ci
mostra invece quella di Gesù che consegna le chiavi a S. Pietro con ai lati la
Madonna con il Bambino e S. Giovanni Battista, mentre più in alto, nel centro,
spicca la figura del Padre Eterno. Sarebbero lavori del 1491 volendosi dar
peso ad una data emersa allorché si scrostarono i muri per rimettere in vista i
vecchi affreschi.
*** Sotto la cappella dell'altare
maggiore vi è la cripta. Vi si discende per due scale situate nelle due
cappelle in testa alle navi laterali. Una tenue luce vi penetra verso est da tre
finestrelle a strombatura, e dalla parte opposta da due bifore aperte ai lati
della gradinata, che dal piano della chiesa mette al presbiterio. Nel centro,
otto colonnette di pietra, i di cui capitelli vigorosamente scolpiti sostengono
la volta a crociera con archi traversi (49). Qualche studioso
trasse motivo dai capitelli per attribuire la cripta al secolo IX, dichiarandola
contemporanea alla basilica. Ma se appositamente scolpiti per la cripta, oppure
se provenienti d'altro luogo e qui reimpiegati, non è possibile accertare. Vi
sta un piccolo altare in muratura verso oriente, dedicato a S. Andrea apostolo,
e situato tra le ultime due colonnette ma alquanto distaccato dalla parete (50). Rimosso per
ordine di S. Carlo fu ben presto rimesso dalla Comunità di Agliate per la
comodità di celebrarvi e di assistere ai sacri riti, specialmente durante la
rigida stagione invernale. Nel suo complesso strutturale la cripta parrebbe
presso a poco del medesimo tempo della basilica, ma non è escluso che in seguito
possa essere andata soggetta a dei ritocchi.
*** E' noto che anticamente i nostri
battisteri erano generalmente di forma ottagonale e avevano la vasca battesimale
per lo più scavata nel pavimento, e tale si presentava pur quello esistente
presso la cattedrale milanese di S. Tecla, nel quale nel 387 S. Ambrogio
battezzò S. Agostino. Il battistero di Agliate, benché non del secolo IV ma
di secoli dopo, si è modellato sulla tradizionale forma diocesana, ed è tra i
più antichi rimasti della nostra diocesi. Sorge attiguo alla basilica, ma
distaccato come di rito. Nel passato vi si accedeva, prima che si erigesse
l'attuale sacrestia, dalla chiesa attraverso una porta aperta nella navata
meridionale. Con molta probabilità è contemporaneo o quasi alla basilica, in
quanto appare opera di una medesima maestranza, sia per lo stesso materiale
impiegato e sia per lo stesso modo di costruire. Non si distingue dalla
chiesa che per la corona degli architetti esterni. Essendo la chiesa una plebana
battesimale e cioè la parrocchiale di tutto il suo distretto, è ovvio che
costruito il nuovo sacro edificio, si sia pensato per tempo anche al
battistero. Esso è privo di matronei o logge superiori, a differenza dei
battisteri di Galliano e di Arsago forse meno antichi, e presenta la
particolarità di essere nonagonale con un'absidiola semi circolare avente un
piccolo altare dedicato a S. Giovanni Battista, il santo al quale ordinariamente
si dedicavano i battisteri. E' coperto da cupola, e all'esterno sopra le otto
finestre antiche che si aprono all'ingiro, meno che a settentrione sopra la
porta di fianco, vi è un'interessante corona di arcatine pensili costituite da
piccole pietre ritagliate, e una serie di piccole nicchie a fornice. Due
porte immettono oggi nel battistero: la prima, che si deve ritenere la
primitiva, aperta nel fronte; l'altra più piccola, ma più comoda per chi vien
dalla sagrestia.
*** Nel mezzo, in cavità e
sprofondata per mezzo metro circa e con un metro e trenta centimetri di
larghezza utile, sta la vasca battesimale in muratura senza alcun rivestimento
interno, ma in origine probabilmente avente lastrine di marmo, come si può
arguire dai resti dell'orlo esterno, ed anche i relativi gradini per scendervi e
risalire. Sul fondo coperto da un lastra di sasso, si nota una piccola
apertura per lo scarico dell'acqua. Evidentemente vi si battezzavano persone
giunte ad una certa età. Presso una parete stà il moderno piccolo fonte
battesimale in uso per la parrocchia. Il visitatore regionale Antonio Seneca
il 3 luglio 1584 osservò che " in medio sacelli locatum est Baptisterium
lateritium forma rotunda, cum vase auricalchi intus incluso pro asservanda acqua
baptismalis ", e aggiunse che " Sacramentum Baptismi administratur in predicto
sacello incolis, ac in eo celebratur solennis baptismus in sabbato s.to ad usum
totius plebis, ubi conveniunt processionaliter omnes fere parochiales Ecclesie
intra fines plebis existentes, et habetur praedictum solenne baptismum a
praeposito " (51). Dai
susseguenti atti di visita del Cardinal Federico Borromeo (1608) si ha che nel
sabato santo il prevosto benediceva solennemente il fonte alla presenza di tutti
i parroci della pieve, ai quali dopo la benedizione distribuiva gli olii e
l'acqua battesimale (52). Ultimi lampi
di antiche cerimonie di quando il battistero plebano era l'unico per tutta la
pieve. Ma ormai già da tempo si battezzava in tutte le parrocchie. Il
formarsi nei singoli villaggi delle rettorie dal secolo XIV in poi fece sì che,
data la facilità e la comodità, si generalizzasse l'uso di amministrare il
battesimo ai neonati nelle stesse chiese locali in qualunque tempo e giorno
coll'immergere leggermente l'occipite della testa del battezzando nell'acqua
battesimale, raccolta in un piccolo vaso di marmo o di metallo. Divennero perciò
inutili gli antichi battisteri plebani, con le loro grandi vasche, adatte per
persone per lo meno già grandicelle, dovendosi scendere e risalire per alcuni
gradini annessi alle vasche stesse (53). Non poche
pitture si vedono sulle pareti interne del battistero, ma quando precisamente e
da chi affrescate, non ci è dato di sapere. Qualcuna non è priva di
efficacia. Sul fianco destro dell'abside, entrando, si incontra un S. Andrea
e un S. Iacopo, e sulla parete meridionale si potrebbe riconoscere le figure di
S. Ambrogio e di S. Onofrio, della Madonna col Bambino sulle ginocchia. Nella
parete ad ovest spicca una Pietà o Cristo deposto dalla croce con intorno la
Madonna e le pie donne. Nella fascia che, internamente sopra le finestre
corre intorno al cupolino, si vorrebbe intravedere, da un affresco tutto
corroso, o una pesca miracolosa oppure il battesimo di Gesù sulle rive del
Giordano. E, comunque, talmente sciupato che si tira ad indovinare. Non mi
risulta inoltre, come asserì taluno, che il battistero nei passati secoli sia
stato usato talora come sagrestia. Oltre tutto sarebbe stato troppo mal comoda
sotto tutti i rapporti.
*** S. Carlo aveva imposto di
togliere i piccoli altari del battistero e della cripta, e di sistemare secondo
le nuove prescrizioni l'altar maggiore e gli altri due delle absidi
laterali. Volle tra l'altro, che l'altar maggiore fosse provvisto di
tabernacolo, ciò che fu fatto collocandone uno di legno, dipinto e intarsiato
con figure. Nei secoli antecedenti il SS. Sacramento (quando si conservava)
si teneva in un armadio o in un piccolo vano scavato nel muro di fianco
all'altare. Sull'altare non ci stavano che i candelieri e il crocifisso. Si
celebrava rivolti al popolo. Ora avvenne che, demolendosi l'altare del
battistero, si rinvenne, chiuso in un vaso di marmo, un artistico reliquiario
d'argento o capsella con reliquie e con impresso il monogramma di Cristo alla
foggia antica. E poiché in quello stesso anno un simile ritrovamento era
avvenuto sotto l'altar maggiore della basilica di S. Nazaro in Milano,
contenente reliquie dei santi apostoli portate a Milano da S. Simpliciano, si
volle congetturare, che anche le reliquie chiuse nella capsella agliatese
fossero dei santi apostoli (Pietro e Paolo) in base alle tre lettere iscritte
nel monogramma, e furono collocate presso l'altar maggiore (54). La capsella è
oggi conservata nell'archivio parrocchiale. Capselle simili, con reliquie di
martiri, che si usavano per gli altari se ne scoprirono a Civate, Mariano
Comense, Garbagnate Monastero, Brivio, Garlate. La loro datazione è variamente
indicata: da qualche secolo prima del Mille si scende a qualche secolo dopo. Ma
non è da escludere che qualcuna possa essere ben più antica (55). Altre
reliquie vennero alla luce in occasione di quella riforma degli altari ordinata
da S. Carlo, tra le quali, si dice, quella insigne di S. Biagio. Di
quest'ultima scrive il Corbella " che con ogni probabilità, prima che venisse
posta sotto il maggiore altare (donde fu levata da S. Carlo stesso), era in
questa cripta, o sotto l'altare o in quell'alcova stessa, ove fu ricollocata in
questi giorni " (56). Dagli atti di
visita del Sormani e del Cermenati, ossia prima che S. Carlo venisse
personalmente in visita pastorale ad Agliate, la reliquia di S. Biagio parrebbe
forse già collocata nella cappella stessa dedicata a S.
Biagio.
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Absidi della basilica e del battistero.
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PARTE SECONDA LE VICENDE DELLA BASILICA ATTRAVERSO I
SECOLI
CAPITOLO I
Agliate nel secolo XIII - La reliquia insigne
di S. Biagio - Generale decadenza e scomparsa delle Pievi - I Vicariati foranei
- Visite pastorali di S. Carlo e di Federico Borromeo e loro delegati -
Soppressione del Capitolo collegiale. Dal Liber Notitiae Sanctorum
Mediolani si ha che nel secolo XIII la pieve di Agliate numerava, escluse le
esenti, 37 chiese con 71 altari (57). Al tempo di S.
Carlo comprendeva anche Paina con Brugazzo, che poi il santo arcivescovo riunì
alla confinante pieve di Mariano. In Agliate oltre la plebana dedicata a S.
Pietro apostolo (con gli altari minori di S. Agata e di S. Pietro martire), e
quello di S. Andrea apostolo nella cripta presso la quale si celebrava altresì
la festa di S. Romano, e un altro ancora dedicato a S. Biagio detto nella
canonica, vi erano altre chiesuole dedicate una a S. Giovanni Battista (ossia il
battistero), un’altra a S. Eustorgio (ora di S. Giuseppe alla Rovella fatta
costruire sull’antica nel 1827-28 dalla contessa Verri, vedova Confalonieri, su
disegno dell’architetto Giacomo Moraglia), e una terza a Santa Maria « in
grepi ». Dove fosse quest’ultima località non saprei dire. Che possa essere
l’attuale Beldosso? Comunque, di edifici sacri al Beldosso e alla Cascinetta non
vi è accenno. Si noti che il termine generico di chiesa (ecclesia) è usato dal
compilatore del Liber anche per le semplici cappellette od oratorietti
aventi un altare. L’altare di S. Pietro martire ci richiama il nobile agliatese
Stefano Confalonieri ch’ebbe mano nell’assassinio di S. Pietro da Verona. Che
sia stato messo dai parenti quasi a riparazione del misfatto? E’ inoltre da
osservare che il Liber ecc., accennando all’altare di S. Biagio vescovo e
martire di Sebaste, non dice che allora ci fosse il suo corpo o gran parte di
esso, mentre per altre chiese (Desio, Cantù, ecc.) ricorda la presenza di tali
sacri depositi. Che dire? Probabilmente una delle due: o l’autore del Liber si è
dimenticato o ha ritenuto non necessario farne parola, oppure, e forse meglio,
quei santi resti oggi ivi raccolti, detti di S. Biagio, finirono ad Agliate in
tempi posteriori al Liber e anteriori a S. Carlo, donati da persona a noi
rimasta ignota. Nel castello di Agliate (in castro de aliate, alliate),
ossia nel soprastante territorio di Costa Lambro, anticamente detto Costa o
Castellanza d’Agliate, sono ricordate tre chiesuole: di S. Lorenzo, S. Martino,
e Santa Maria, più un altare dedicato a S. Adriano. La chiesa di S. Martino ci
richiama quella che al presente è la parrocchiale del luogo. Nel secolo XIII
Costa, a quanto pare, continuava ad essere un tutt’uno con Agliate.
Successivamente, con lo sparire della pieve originaria e del castello, diverrà
una piccola comunità indipendente sia civilmente che religiosamente.
* *
* Cause diverse, e fra queste lo spirito d’autonomia che durante le lotte dei
Comuni Lombardi contro l’impero germanico era venuto diffondendosi anche nelle
campagne, il susseguirsi dello scisma Occidentale, il formarsi delle Signorie, e
forse più che tutto la Rinascimentale cultura umanistica paganeggiante la quale
produsse un rilassamento nella fede e nei costumi, diedero origine e sviluppo ad
una inevitabile evoluzione sociale, politica ed ecclesiastica. Avvenne tra
l’altro nelle campagne, che mentre prevosti e canonici, investiti talora di più
benefici, non si curavano gran che di tenere la residenza presso la chiesa
plebana alla quale erano incardinati (de ordine), dall’altra l’aumentata
popolazione rurale più non si sentiva di recarsi alla lontana plebana per le
funzioni parrocchiali. Per necessità di cose, dal secolo XIV in poi, se non
forse prima, ma poco a poco, e dove prima e dove dopo, a seconda dell’importanza
dei villaggi, delle circostanze e dei mezzi disponibili, si prese a funzionare
parrocchialmente, di fatto se non di diritto, presso la chiesa principale del
villaggio stesso, dando origine alle rettorie. Così, ad esempio, il 29 novembre
1367 il sacerdote Andrea Ghiringhelli (de giringelis) è investito del
beneficio della chiesa di S. Giacomo e Filippo in Giussano col titolo di «
beneficialis et rector ». La comodità stessa fece sì che si introducesse e si
affermasse via via, come si è detto, l’uso di amministrare il battesimo, il più
necessario dei Sacramenti, non più a persona già in età, ma a tutti i neonati
press’a poco come si fa al giorno d’oggi, lasciando in abbandono i lontani
battisteri plebani e le loro grandi vasche battesimali. Lo Stato della Chiesa
Milanese del 1466 segna espressamente nelle pievi la presenza di non poche
parrocchie rurali, o per dir meglio di rettorie, poiché canonicamente erano
ancora quasi un di mezzo tra la semplice cappella, e la vera completa parrocchia
rurale quale risulterà dalla successiva Riforma Tridentina. Allorché S. Carlo fu
eletto arcivescovo di Milano nel 1360, e vi fece residenza cinque anni dopo, la
scomparsa delle pievi era già un fatto compiuto, favorito dal mal esempio che
scendeva dall’alto, poiché da oltre una cinquantina d’anni i milanesi più non
vedevano i loro arcivescovi, i quali si accontentavano di riscuotere le rendite,
delegando ad altri il governo della diocesi. I singoli villaggi d’ogni pieve si
erano trasformati definitivamente in rettorie fra di loro indipendenti nella
cura d’anime, e più nulla ebbero a che fare, sotto questo riguardo, con l’antica
chiesa matrice plebana. La parrocchia primitiva era finita, lasciando una
sequela di disordini per il fatto che le rettorie si formarono confusamente per
naturale evoluzione, senza una regola generale prestabilita, per cui S. Carlo
dovette non poco faticare a sistemare in meglio la situazione col levare gli
abusi, e talora sopprimere, riunire, trasferire benefici, collegiate; creare
nuove parrocchie, nuovi vicanati, ecc. Ad Agliate erano persino andate in rovina
i locali d’abitazione per il clero: prevosto e canonici dimoravano nei paesi
della pieve o altrove (58).
* * *
Sull’ossatura territoriale delle pievi vi subentrarono col Concilio di
Trento, come si è detto, i Vicariati foranei, i quali furono e sono ben altra
cosa. L’autorità plebana, in quanto parrocchiale, era fissa al luogo e
difficilmente alterabile, così che continuava anche in sede vacante. La
vicariale invece era personale (ad personam), ossia l’eletto non era e non è che
un incaricato arcivescovile con l’obbligo di sorvegliare un dato numero di
parrocchie. I vicariati furono pertanto, per loro stessa natura, facilmente
rimaneggiabili a seconda delle necessità religiose locali o zonali come infatti
avvenne da S. Carlo in poi. Nei primi anni della loro introduzione troviamo alle
volte investito quale vicario, non il prevosto ma un parroco del vicariato
stesso. Ad Agliate, per esempio, al tempo di S. Carlo, fu per un dato tempo
vicario foraneo il parroco di Briosco. In seguito tutti i centri vicariali
furono insigniti, se già non lo fossero, del titolo di prepositura o
arcipretura, e chiamati prevosti o arcipreti i loro titolari. Si continuò
tuttavia, per consuetudine, ad usare comunemente l’antico termine di pieve
promiscuamente con quello di vicariato, forse anche perché l’amministrazione
civile conservò per suo uso l’antica divisione territoriale pievana fin verso la
fine del secolo XVIII (59).
* * *
Nel 1338 era passato a miglior vita Ruggero de Gluxiano prevosto di
Agliate. Gli successe il caratese Melchiorre Giacomo de Baziis, la di cui
famiglia era in quel tempo tra le più distinte del borgo di Carate dove aveva
fondato una cappella detta appunto « de Baziis ». La Notitia cleri
mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem ci presenta per la
canonica di Agliate questo accertamento d’estimo: D. Prepositus dicte
Canonice L.3-S. 7-D.2 Pbr. Johannes de Gluxiano L.1- S. 13- D. 7 D. Antonius de
Gaitonibus (sic) L.1-S. 15- D. 7 D. Johannes de Vicomercatibus L.1-S. 13- D. 7
D. Enrichus Con fanonerius L.1-S. 8-D.O Christoforus de la Strata . L.1-S. 8-D.O
Pbr. Antonius Con fanonerius L.O-S. 5-D.1 Christoforus de Gluxiano L.O-S. 5-D.7
Georgius Canda L.O-S. 5-D.7 Petrinus de Giochis . . L.O-S. 5-D.7 Antonius de
Nava . . L.O-S. 5-D.7 In tutto dieci, tra sacerdoti e chierici di grado
inferiore, con in più il prevosto del quale non si fa il nome. Segue l’elenco
delle 22 cappelle estimate o chiese principali delle singole comunità della
pieve. Il compilatore della sopracitata Notitia usa per tutte le chiese, senza
far alcuna eccezione, il titolo di cappella, mentre sappiamo con certezza che
già in quel secolo non mancavano nella pieve delle rettorie rurali (Giussano,
Besana, Carate). Il termine tradizionale di cappella durò a lungo e fu talora
usato nel significato di rettoria. Infatti nel Liber Seminarii
Mediolanensis del 1564 così si esprime per Calò: « Cappella sive Rettoria
de Caloe »... e per Giussano: « Rettoria sive Cappella de Santo Jacomo et
Filippo de Gluxiano ». La lira imperiale si divideva in 20 soldi, e il soldo
in 12 denari. Quanto potesse allora valere la moneta, in confronto della nostra
odierna in continua svalutazione, non è facile precisare. Ad ogni modo la nostra
canonica risulta sul finire del secolo XIV tra le meno provviste della diocesi,
e ciò fu una delle cause che facilitarono il suo decadimento, pur tenendo
calcolo del lento inarrestabile dissolversi della primitiva disciplina
ecclesiastica pievana. Nel 1364, allorquando venne imposto da S. Carlo un
tributo sui benefici ecclesiastici diocesani per l’erezione del Seminario, ad
Agliate si aveva questa grave situazione: « Prepositura de Sancto Petro
d’Aliate divixa in due parte: una de d.no Anibal Taliabò, l’altra de d. no
Andrea de Clapis L.4-S. 6-D.O canonicato alias de d.no Benar (sic) Massalia L.
O-S. 17- D. O» L’Annibale Tagliabue, mentre godeva metà del reddito
della prepositura di Agliate, era nello stesso tempo rettore della chiesa di S.
Ambrogio in Carate. L’Andrea de Clapis era invece prevosto di Brebbia. Ricordo
al lettore che il borgo di Carate era diviso in due rettorie; l’altra era quella
di S. Simpliciano occupata da Ambrogio Scola.
* * *
Da alcuni
atti di elezione di canonici del secolo XVI — i più antichi che mi fu dato di
rintracciare — si ha che i canonici, oltre gli scarsi redditi dei rispettivi
benefici canonicali, partecipavano ai pochi proventi della massa o mensa
capitolare, per cui nessuno risiedeva in Agliate, dove del resto, come si è già
accennato, più non esisteva né la casa del prevosto né quella dei canonici, che
dimoravano nei paesi circonvicini, e talora come rettori. I loro obblighi
consistevano nel celebrare ognuno nella chiesa d’Agliate una Messa alla
settimana, e di intervenire ogni anno (congregare et divina officia
cantare) nelle solennità di Natale, Epifania, Pentecoste, dei santi Pietro e
Paolo, e nella generale Commemorazione di tutti i defunti, e partecipare alla
processione del terzo giorno delle litanie triduane (in altri documenti si dice
del primo giorno). Chi non fosse stato presente « in celebrando et alia divina
officia cantando, quod liceat alijs dominis canonicis qui non defecerint
retinere tot ex redditibus dicte residentie ad compotum solidorum decem imp. pro
quolibet vice, salvo quod causa impedimenti infirmitatis », la quale doveva
essere certificata dal medico curante, o da qualche nobile del luogo ove abitava
(istrumento 3 settembre 1334). Con particolare solennità si celebrava la festa
patronale dei santi apostoli Pietro e Paolo; i canonici intervenivano
capitolarmente ai primi e secondi vesperi, e similmente accompagnavano col canto
la Messa capitolare. Il giorno seguente nello spazio dietro la chiesa si teneva
la fiera o mercato « mercatus et emporia ». Quello spazio era ombreggiato da
vecchie piante di noce, e vi si accedeva dalla parte aquilonare della chiesa. Si
vociferava che fosse luogo pubblico. Fra i canonici sceglievasi il puntatore e
il tesoriere. Il prevosto nella distribuzione dei proventi godeva di una doppia
porzione. L’obbligo della cura d’anime spettava al prevosto, il quale al tempo
di S. Carlo, ed anche prima, abitava in Carate, facendosi per lo più sostituire
da qualche Curato vicino, o da altri, dando loro un compenso. Il prevosto nelle
pubbliche funzioni usava il rocchetto, la cappa e la ferula. I canonici non
portavano altra insegna che la cotta. La chiesa d’Agliate non vantava privilegi
speciali come, ad esempio, quella di Pontirolo.
* * *
Lo
sfasciamento della nostra colleggiata, e la trascuratezza in cui venne a
trovarsi la basilica, si rileva ben chiaro dalle visite del Sormani prevosto di
Asso (3 ottobre 1366) e del Cermenati prevosto di Desio (26 ottobre 1369) (60). Nella chiesa a
tre navi si discendeva dal sagrato o antico cimitero (61) per sette
gradini, o forse otto come si dice in atti successivi da altri visitatori. Nella
facciata si aprivano due finestre. Non aveva pavimento. La navata centrale, con
sei finestre per parte, era coperta di sole tegole, mentre le due navi minori
risultavano scoperchiate e, cosa lacrimevole scrive il Cermenati, vi cresceva
l’erba. Nella chiesa non si conservava il SS. Sacramento, né vi era il
tabernacolo, e nemmeno una pisside per portare il viatico agli infermi.
All’altar maggiore si ascendeva dal piano della chiesa per sette gradini di
sasso: dalla parte del Vangelo stava un antico ambone di pietra. Lo spazio
dietro l’altare serviva di sagrestia dove si conservavano i pochi e consunti
paramenti (62).
Annota il Cermenati che sull’altare spiccava una piccola icona lapidea con le
figure della beata Vergine e dei santi apostoli Pietro e Paolo. In testa alla
navata meridionale, vi era l’altare in onore di S. Agata, e nell’altra
aquilonare pure un’altare dedicato a S. Biagio presso il quale si diceva che ci
fosse il corpo del santo (63). Sotto la
cappella dell’altare maggiore stava la cripta, la cui volta era sostenuta da
otto colonne con un piccolo altare a S. Andrea apostolo. Al tempo del Sormani vi
si celebrava la Messa durante le stagioni invernali, essendo la chiesa
freddissima da gelare talvolta nel calice il Sangue di Cristo, dicono gli atti
di visita. Poco discosto dal sacro edificio sorgeva il battistero a cupola e con
vecchi dipinti alle pareti, e con nel mezzo l’antico fonte battesimale che, al
dir del Cermenati, in origine era assai bello « quod tunc temporis erat
perpulchrum ». A quanto pare la chiesa non ebbe fin dalle origini un campanile
vero e proprio, ma il solito pilastrello arcuato con una campanella sopra il
fronte della chiesa. Comunque, né il Ferragatta, né il Sormani, né il Cermenati
e tutti i successivi visitatori fino a Federico Borromeo fanno cenno di una
torre campanaria, come nulla sappiamo da altre fonti. In una carta senza data,
ma del tempo, si nota che in Quaresima la chiesa era molto frequentata dagli
abitanti dei contorni, che vi convenivano per particolari devozioni (64). Dal che possiamo
arguire che le SS. Quarantore di Agliate, che a tutt’oggi si continua a
praticare nelle solennità pasquali con gran concorso di gente, si innestano su
antiche devozioni agliatesi. Il Sormani nella sua relazione suggeriva, come
miglior partito, di trasferire il centro vicariale nel vicino borgo di Carate,
non lasciando ad Agliate che un semplice parroco, tanto più che la popolazione
si aggirava sulle cento anime, suddivise in dodici famiglie (65). E poiché i beni
residenziali erano stati nel 1348 (rogito 24 ottobre) divisi tra il prevosto
Annibale Tagliabue ed i canonici (66), raccomandò che
si avesse a riunirli di nuovo, distribuendo il reddito a coloro che sarebbero
intervenuti alle funzioni capitolari. Per togliere il notevole dislivello della
discesa dal sagrato nella chiesa, suggerì che si avesse ad elevare alquanto il
pavimento della medesima colmandolo di terra, e che si avesse poi a chiudere con
un muro, elevato fra le colonne, le due navi laterali il cui spazio si sarebbe
usato come cimitero. Praticamente la chiesa sarebbe stata così ridotta ad una
sola nave; quella di mezzo. Per fortuna non se ne fece niente. S. Carlo
Borromeo, con ordini in data 20 ottobre 1368, volle che prevosto e canonici, per
turno, venissero a celebrare nella chiesa di Agliate una Messa alla settimana,
mentre le altre funzioni capitolari si continuassero nella chiesa di S. Ambrogio
in Carate, e che i beni residenziali divisi ritornassero a comporre la massa
capitolare. Riguardo al definitivo trasferimento del centro plebano e della
sistemazione del corpo di S. Biagio, avrebbe deciso dopo la sua visita pastorale
(si veda in appendice doc.to II).
* * *
Giunse infatti S. Carlo
il sabato 16 agosto 1378 all’ora 24a, ossia sul finire del giorno (67). Smontò
all’oratorio di S. Rocco di Carate ricevuto da tutto il clero della pieve, dalle
confraternite, dal popolo di Carate e di Agliate; indossò la cappa pontificale,
baciò la croce, e quindi sotto il baldacchino, cavalcando una mula, si avviò
processionalmente alla chiesa prepositurale. Quivi giunto diede la benedizione
solenne e pubblicò l’indulgenza di cento giorni, ed essendo già l’ora prima di
notte, e cioè ormai sera se ne ritornò a Carate nella casa del prevosto. Il
giorno seguente (domenica) fu per tempo di nuovo ad Agliate: vi celebrò la
Messa, amministrò la Cresima e ultimò la visita, non dimenticando l’oratorio del
Beldosso e l’altro di S. Eustorgio alla Rovella. E poiché quest’ultimo era stato
ridotto dai Confalonieri proprietari ad uso privato, togliendo l’accesso al
pubblico, volle che fosse rimesso nelle originarie condizioni, e non più fatto
ripostiglio di cereali od altro da parte dei coloni (68). Di un oratorio
alla Cassinetta non vi è parola. L’attuale dedicato a S. Alessandro fu
probabilmente eretto più tardi. La basilica, a tre navi, è detta ampla et
forma decora in omnibus similis structurae Ecclesiae S. Vincenti in Prato
Mediolani (di ampia e bella forma in tutto simile alla chiesa di S. Vincenzo
in Prato di Milano). Dal sagrato si discendeva al piano della chiesa dalla sola
porta centrale, essendo state otturate da pochi anni le altre due laterali. Sono
numerati tre altari: il maggiore, quello di S. Agata, e l’altro di S. Biagio.
Mancava la sagrestia, il campanile, la casa d’abitazione per il prevosto, ecc.
La situazione continuava a rimanere press’a poco eguale a quella che anni prima
avevano trovato il Sormani e il Cermenati. D’altra parte cosa poteva fare una
popolazione di circa cento anime se non ci mettevano una mano i signori del
luogo? E poiché i nobili Pietro Tonso del Beldosso e Guido Cusani della
Cassinetta si erano esibiti, specialmente il Cusani, di eseguire le riparazioni
necessarie alla chiesa, costruire la sagrestia, cintare il cimitero o sagrato,
costruire la casa parrocchiale, ed a provvedere alle altre cose necessarie, il
santo arcivescovo volle, per maggiore sicurezza (si vede che non si fidava
troppo delle parole), che di tutto questo fosse steso regolare istrumento. S.
Carlo aveva ancora pensato di riunire la Costa ad Agliate e formare una sola
parrocchia, come lo era già anticamente prima dello sfasciamento della pieve.
Ciò non ebbe effetto, a quanto sembra, per la lungaggine nel far costruire ad
Agliate la nuova casa d’abitazione per il prevosto. Riguardo al trasferimento
della collegiata a Carate nulla di nuovo nei decreti emanati dopo la sua visita
personale. Continuò ad aver vigore quanto aveva precedentemente stabilito. Volle
però che solamente i presenti alle officiature, sia il prevosto che i canonici,
avessero parte alle quotidiane distribuzioni residenziali, e che prevosto e
canonici fossero ben istruiti ed abilitati nel canto fermo entro due mesi con
relativo esame (69).
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Capitello romano col tridente e i delfini.
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Pochi mesi prima della morte di S. Carlo, e cioè
il 5 luglio 1584, Agliate accolse il visitatore regionale Antonio Seneca. Costui
dovette constatare il nulla di fatto di quanto si erano obbligati i due
sopracitati di Agliate; chè anzi in questo frattempo era stato distrutto anche
il vecchio ambone senza costruirvi altro pulpito. E siccome mancava ancora la
sagrestia, suggeri di di sistemarla nel mezzo della nave meridionale, ma anche
questa volta nulla si fece e fu un bene (70). Gli Agliatesi,
nobili e popolo, non corrisposero con quella premura e sacrificio che comportava
l’esecucuzione degli ordini S. Carlo. Si ha quasi l’impressione che praticassero
quasi dell’ostruzionismo onde intralciare il trasferimento della colleggiata. A
così pensare induce anche il fatto che quei di Agliate, nel timore di rimanere
privi di assistenza religiosa in luogo, avevano in merito inoltrata una supplica
(71). S. Carlo
passò a miglior vita il 3 novembre 1584 senza che fosse definitivamente
sistemata la collegiata a Carate. D’altra parte i Caratesi non intendevano
sobbarcarsi a sacrifici di sorta. Dopo l’intermezzo di Gaspare Visconti, si ebbe
il lungo episcopato del card. Federico Borromeo (dal 1595 al 1631), il quale
visitò la pieve nel luglio 1608, e ancora nel 1619 ma fermandosi in quest’ultima
nei luoghi principali: Agliate, Carate, Besana, Giussano: emanò quindi i
relativi decreti (72). Mandò in sua
vece altri pro visitatori: Baldassare Cepolla (Cipolla?) nel 1597; Gio. Paolo
Clerici nel 1604; Cesare Pezzani nel 1618 (73). Dal Cipolla
sappiamo che i morti si seppellivano in chiesa, che si era costruito un pulpito
di legno, e finalmente edificata la casa parrocchiale, ma a spese della
comunità, con due locali inferiori e due superiori, portico, stalla, e
soprastante fienile. Bartolomeo Riboldi, avendo liberamente rinunciato alla
prepositura di Agliate, ebbe a successore il 24 aprile 1599 Gio. Pietro
Fumagalli nativo di Brongio pieve di Oggiono, dopo averne ottenuto il possesso
con lettere apostoliche del 9 gennaio 1598. Prese dimora nella nuova casa
prepositurale. Nella cripta si era ripreso a celebrare, specialmente d’inverno,
essendovi stato rimesso l’altare dopo la morte di S. Carlo. Dal Clerici si ha
che vi si celebrava la festa dei Re Magi, e successivamente dal Pezzani che
riparazioni e adattamenti si eseguirono nella basilica, dopo la visita di
Federico Borromeo del 1608. Tra l’altro si apersero nuove finestre nella
facciata, si ripararono e si imbiancarono le pareti, si eresse una torre
campanaria presso la porta meridionale. Gli atti di visita del card. Federico
Borromeo del 1608 ci dicono che la collegiata si era ridotta al prevosto (il
Fumagalli, che in quell’anno si trovava nelle carceri arcivescovili (74) e a due canonici
di sei che erano al tempo di S. Carlo. Sotto il falso pretesto che fossero
benefici semplici e non residenziali, uno era stato unito al beneficio
coadiutoriale di Arona dall’Albergato Vicario Generale del card. Federico, e
altri tre furono impetrati dalla Santa Sede da Alessandro Confalonieri prevosto
della collegiata di S. Babila in Milano. Di trasferire la collegiata a Carate
più non se ne parla, tra l’altro perché, come si è osservato, quei di Carate
ricusavano di contribuire alle spese necessarie (75). Gli Agliatesi
d’altra parte, a quanto pare, insistevano perché fossero richiamati i quattro
canonicati abusivamente alienati, e che fossero quindi canonicamente soppressi
canonicati e mensa, riunendo il tutto (beni e diritti) alla prepositura, così da
costituire un beneficio sufficiente al sostentamento di un prevosto che fosse un
sacerdote idoneo alla cura d’anime. Il card. Federico, col passare del tempo,
vista ormai l’impossibilità di far sussistere né in Agliate né in Carate la
collegiata, giacché il prevosto non aveva che sole lire 150 imperiali di
beneficio prebendale, formato da un affitto livellario sui terreni della cascina
Boffalora di Rancate, e che i beni della mensa capitolare erano formati di 250
pertiche di terreni dispersi in diversi paesi della pieve, oltre alcuni livelli
che fruttavano una trentina di lire, ossia in tutto lire imperiali 800 annue,
così che né prevosto né canonici potevano decorosamente vivere facendo
residenza. E poiché il prevosto Fumagalli aveva già ottenuto dall’Ill.mo
Domenico Spinola Auditore della Camera Apostolica, con rescritti del 14 maggio
1614 e del 31 marzo 1618 di poter egli solo godere i frutti della mensa
capitolare, suggerì agli abitanti, com’era del resto nei loro desideri, di fare
istanza presso la Santa Sede, poiché egli non lo poteva fare di sua autorità,
onde ottenere che, canonicamente soppresso il capitolo plebano, i proventi della
mensa capitolare passassero definitivamente alla prepositura (76). Ciò che infatti
avvenne, non rimanendo in Agliate che un prevosto coll’obbligo di risiedervi e
di attendere personalmente alla cura d’anime. Continuò tuttavia ad essere
considerato il Vicario foraneo del territorio dell’antica pieve. Queste vecchie
collegiate rurali, data la nuova organizzazione parrocchiale post-tridentina,
non avevano più ragione di esistere. In certi luoghi erano più di danno che di
vantaggio spirituale. Una nuova collegiata, ma che niente avrà a che fare con
quella soppressa di Agliate, sorgerà in Carate nella seconda metà del secolo
seguente.
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Prospetto della basilca col nuovo campanile e la
canonica, dopo i restauri.
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CAPITOLO II Visita pastorale a Carate del card.
Pozzobonelli - Erezione in Carate di una locale prepositura collegiata soppressa
dalla Repubblica Cisalpina - Ricostruzione della chiesa prepositurale di
S.Ambrogio e S. Simpliciano.
La domenica di Pentecoste del 3 giugno
1759 arrivava in visita pastorale l’arcivescovo card. Pozzobonelli solennemente
ricevuto dai Caratesi sotto un magnifico arco trionfale, e, ossequiato dal
clero, dai nobili e dal popolo, si avviò alla chiesa di S. Ambrogio sotto un
baldacchino, le cui aste erano sorrette dai più nobili del paese, tra suoni di
musica, di campane, e sparo di mortaretti. Il prelato rimase bene impressionato.
Del pensamento di erigere in Carate una prepositura collegiata, che già frullava
nella mente di qualche dirigente del luogo, se ne fece probabilmente parola al
cardinale, il quale trovandosi sul posto e quindi in grado di poter ben
considerare la cosa, non dev’essersi dimostrato contrario. Per l’erezione di una
collegiata si richiedevano particolari condizioni, e cioè : «un luogo degno
di nota; numeroso popolo e clero; una chiesa decorosa e capace; abbondanza,
decenza e preziosità di sacre suppellettili; congrua dote per le prebende
canonicali; il desiderio della città e incremento del divin culto; benigna
approvazione regia ». Carate poteva ben ospitare decorosamente una
prepositura collegiata (77). Era il paese più
importante e popolato della pieve; contava 1200 abitanti tutti brava gente
(bene morati omnes), con 11 sacerdoti, 10 edifici sacri tra chiese e
oratorii, 6 tra benefici e cappellanie, e 33 legati di Messe. Davano poi
religiosamente fama al paese due santi personaggi caratesi: il beato Pietro
Zappelli, vissuto probabilmente tra il secolo XIII e il XIV, che fece erigere in
Carate un ospedale per i poveri e che dotò coi suoi beni situati parte in
territorio di Carate e parte in quello di Seregno (a San Salvatore); ed il
venerabile Leone, che fu generale della Congregazione di S. Salvatore in
Laterano, morto in odore di santità presso Lucca nel 1401. Il corpo del beato
Zappelli, che taluno volle nobile e diacono, era stato conservato in un’urna
nella chiesa di S. Ambrogio e venerato come santo: un santo sul tipo di S.
Gerardo tintore di Monza, e cioè dichiarati tali a voce di popolo. Del Zappelli
nulla di preciso sappiamo della sua nascita, della sua vita e della sua morte:
mi risulta soltanto che se ne faceva la commemorazione al 18 maggio come si
legge in alcuni breviari e messali ambrosiani anteriori a S. Carlo. Questi fece
togliere l’urna e riporre in luogo rimasto sconosciuto. Oggi è ricordato in una
via del paese a lui dedicata. Dell’ospedale da lui fondato il più antico accenno
che finora si conosca è del 1398: lo troviamo tassato in lire 13, soldi 4 e
denari 8. Nel 1458 fu unito all’Ospedale Maggiore di Milano, il quale ebbe poi
sempre parte nell’amministrazione di quell’Opera Pia. Il borgo di Carate poteva
inoltre vantare una delle più antiche prepositure degli Umiliati. Era dedicata
alla Purificazione di Maria, e durò sino alla soppressione dell’Ordine fatta da
S. Pio V, su istanza di S. Carlo, con bolla del 7 febbraio 1571, e da allora
ridotta in commenda a disposizione della Sede Pontificia. Possedeva 920 pertiche
e 22 tavole di terreni. L’Ill.mo Mons. Francesco Cioia, ultimo commendatano
residente a Roma, ne traeva un’annua rendita di lire imperiali 3550. Fu
soppressa nel 1798.
* * *
Ben studiato e preparato il piano, nel
1762 i Caratesi iniziarono le pratiche religiose e civili. Per la formazione
delle prebende canonicali, oltre al rimaneggiamento dei benefici locali
disponibili, vi si aggiunsero due canonicati di fondazione privata, uno di Don
Giuseppe Bernasconi ex parroco di Masnago, e l’altro dei conti Confalonieri con
in più due cappellanie corali. Nello stesso tempo si pensò agli urgenti e
necessari lavori di adattamento della chiesa, specialmente riguardo al coro. I
conti Confalonieri, che in quegli anni primeggiavano in Carate, ebbero gran
parte in questa faccenda (78). I Caratesi,
signori e popolo, questa volta si dimostrarono favorevoli, tanto più che tutto
veniva fatto senza alcun onere o prestazione da parte del Comune. Il 19 marzo
1763 i capi-famiglia si radunarono in assemblea o convocato generale sulla
pubblica piazza per votare l’assenso all’erezione della collegiata in modo da
conseguire in seguito il beneplacito regio. Intervennero pure i tre sostituti
dei deputati dell’estimo coll’assistenza del regio cancelliere delegato. Il
risultato della votazione, debitamente legalizzato, fu presentato e approvato
dal Senato di Milano allo scopo di facilitare l’approvazione del potere centrale
di Vienna. L’8 agosto 1765 morì a 88 anni di età D. Antonio Maria Colciago
parroco di S. Ambrogio, il che rese più facile lo svolgimento delle pratiche
burocratiche. Dal Vaticano il 3 giugno dell’anno seguente arrivò il consenso con
bolla pontificia di Clemente XIII. Soppresse le due antiche parrocchie di S.
Ambrogio e di S. Simpliciano (di quest’ultima il parroco Riva aveva
preventivamente date le dimissioni), se ne formò una sola sotto il titolo dei
sopraddetti santi col grado di prepositura collegiata, togliendo in tal modo il
grave inconveniente di due parroci funzionanti parrocchialmente nella medesima
chiesa di S. Ambrogio, non di rado motivo di contrasti. Il 29 giugno 1767, un
imperiale dispaccio da Vienna concedeva il sospirato beneplacito alla bolla
papale. Finalmente, dopo cinque anni di laboriose pratiche, il 14 ottobre di
quello stesso anno (1767), previo assenso arcivescovile, venne eretta
canonicamente la collegiata con rogito di Carlo Rusca, notaio arcivescovile, e
incominciò a regolarmente funzionare. Il primo prevosto prefetto del Capitolo
(il quale doveva essere un laureato in Diritto oppure maestro di Teologia o
quanto meno Licenziato), fu Giuseppe Riva, il già parroco di S. Simpliciano, e i
primi canonici: Battista Casali, teologo, ma esonerato dall’obbligo di leggere o
spiegare la Sacra Scrittura; Giacomo Colciago; Giuseppe Porro; Carlo Basilio
Gorio; nobile Bernardo Confalonieri; Giuseppe Bernasconi; più due cappellani
corali di fondazione Confalonieri. L’obbligo della cura d’anime rimaneva presso
il Capitolo. Al prevosto spettava, come divisa, la cappa magna violacea con
pelle di ermellino sopra il rocchetto, e la ferula: ai canonici l’almuzia. Lo
Statuto Capitolare venne approvato dall’arcivescovo il 17 agoosto 1774. Senonché
il 10 luglio 1798, ancora viventi alcuni dei primi canonici capitolari, la
collegiata fu travolta nelle soppressioni ordinate dai rivoluzionari della
Cisalpina. I suoi beni furono sei giorni dopo incamerati. Si poterono salvare a
stento i due benefici di S. Ambrogio e di S. Simpliciano, in quanto
originariamente avevano annesso la cura d’anime. La collegiata scese a semplice
parrocchia prepositurale con un coadiutore titolare chiamato teologo per
consuetudine. La vecchia e cadente ex parrocchiale di S. Simpliciano, che
sorgeva all’estremità del borgo verso Albiate, finì coll’essere completamente
atterrata, rimanendo unica chiesa parrocchiale quella di S. Ambrogio,
ricostruita più ampia in stile neoclassico su disegno dell’architetto Taroni, e
alla quale, come si è detto, era stato aggiunto anche il titolo di S.
Simpliciano. La facciata venne rifatta molti anni dopo (1880) per munificenza
della signora nobile Isabella in Buttafava; e la chiesa nel suo interno ornata
di stucchi e di affreschi nel 1900 dal Beghè. Dell’antica chiesa di S. Ambrogio,
di architettura romanica a tre navi e divisa da quattro colonne per lato, non
rimase che la robusta e interessante torre campanaria, alla quale nel 1767 era
stata tolta la ruinosa cupola, in occasione del collocamento di un nuovo
concerto di cinque campane tenacemente voluto dalla popolazione in sostituzione
delle tre precedenti; concerto aumentato nel 1939 ad otto campane dal prevosto
Mons. Luigi Crippa. Ultimamente si è tolto il neoclassico altare maggiore, che
poteva essere conservato in posto, in quanto conforme allo stile della chiesa,
pur sistemandone un altro nel presbiterio secondo le riforme volute dal Concilio
Vaticano II. Chiusa questa parentesi, che il lettore mi vorrà perdonare,
ritorniamo alla nostra basilica d’Agliate.
CAPITOLO III Gravi
danni alla basilica sotto il prevosto Curioni (1724-1759) - Il card. Gaisbruck
distrugge la pieve o vicariato foraneo d’Agliate - Il card. Ferrari lo
ripristina in parte - I moderni restauri del sacro edificio e del
battistero.
Col secolo XVIII la basilica andò soggetta a gravi
modifiche, specialmente con Pietro Francesco Curioni prevosto d’Agliate dal 1724
al 1739 (79);
modifiche che negli atti di visita del card. Pozzobonelli del maggio 1739 sono
dette restauri insigni (!), ma che in realtà altro non furono che dei
guasti, perché compiute non secondo lo stile architettonico della chiesa, ma
seguendo il barocchismo allora dominante. Sappiamo infatti che nel 1731 il
pulpito di legno del secolo XVI venne sostituito con un ambone barocco di pietra
arenaria o molera, e che nel 1741 vi si eresse tra la basilica ed il battistero
la nuova sagrestia (l’attuale), comoda per il servizio ma fuori posto, con in
essa un altare dedicato ai SS. Cosma e Damiano (80) lasciando in tal
modo libera l’antica cappella di S. Agata che fu ripristinata e dedicata alla
Madonna. Inoltre, al dire del Corbella, in quel tempo per conferire internamente
alla chiesa la forma di Croce, si apersero due grandi archi nelle pareti
laterali della navata centrale col levare le due colonne vicine al presbitero,
danneggiando in parte le pitture della parete aquilonare; il pavimento venne
rifattto e rialzato di circa mezzo metro seppellendo le basi delle colonne; si
soffittarono le due navi laterali e si rifece quello della navata centrale, e la
basilica fu coperta con un unico tetto a due enormi spioventi; si aprirono altre
discordanti finestre nella facciata e nei fianchi, e vennero otturate le due
bifore, guardanti nella cripta, coll’addossarvi una gradinata per tutta la
lunghezza della barocca balaustrata di marmo. Queste riforme, se non proprio
tutte eseguite in quegli anni, poiché di qualcuna se ne parla già in visite
pastorali precedenti (come ad esempio di aprire nuove finestre, rialzare il
pavimento, soffittare le navate), è tuttavia più che verosimile che la maggior
parte di esse siano avvenute durante la parocchialità del Curioni. Le
innovazioni si poterono eseguire con l’aiuto di benefiche persone, e di questue
in paesi circonvicini come da concessione fatta nel 1730 dal card. Odescalchi.
La parrocchia d’Agliate, che allora contava 172 abitanti, poteva dare ben poco
per le relative spese, se ancora nel 1783 non aveva che un annuo reddito di lire
369 (ricavato dalle questue, elemosine, e gratuita filatura del lino), che si
consumava nell’ordinario mantenimento delle suppellettili, dell’olio, della
cera, e di eventuali piccole riparazioni della chiesa. Similmente il prevosto
non aveva di che scialare per quello che gli forniva la prebenda. Nel 1793
Pietro Cuzzi, parroco di Besana, delegato generale della regia amministrazione
provinciale del Fondo di Religione, in occasione dell’entrata in Agliate del
nuovo prevosto Fedele Pirovano, già parroco di Pozzolo pieve di Gorgonzola, il
quale succedeva al prevosto Matteo Borrani passato al beneficio teologale di
Treviglio il 24 luglio, ci ha lasciato questo prospetto: ATTIVO: — Fitti di
case, beni e frutti di parte padronale .L. 1880. 1.2 — Livelli attivi L.
221.15.0 Totale attivo L. 2101.16.2 PASSIVO: — Carichi regi L. 180. 4.6 — Decime
censi pass L. 4.10.0 — Spese di campagna e riparazioni L. 29. 0.0 L. 213.14.6
Rimane l’avanzo in L. 1888. 1.8
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Un colpo mortale ebbe a
soffrire il vicariato di Agliate coll’arcivescovo card. Gaisruck nel 1838. Se S.
Carlo e Federico Borromeo avevano pensato di sistemare il centro plebano
vicariale coll’annesso Capitolo nel vicino borgo di Carate, ma senza poi
tradurre in pratica il loro divisamento, il Gaisruck invece con decreto del 23
aprile divise sen’altro, « auctoritate ordinaria », in due parti il vicariato,
attribuendone una metà alla parrocchia di Besana, elevandola per la circostanza
in prepositura (81)
e l’altra alla prepositurale di Carate, non lasciando ad Agliate che il semplice
titolo di prevosto locale. Distruzione, a quanto pare, non in tutto regolarmente
compiuta. Nel 1901 l’arciv. card. Ferrari, in base all’esposto del prevosto Don
Luigi Colombo, e tutto ben considerato col canonista di Curia Mons. Nasoni,
ritenne giusto ed opportuno, pur lasciando sussistere i vicariati foranei di
Besana e di Carate, di richiamare sotto l’antica matrice quattro delle sue
parrocchie (due del vicanato di Besana e due del vicariato di Carate), e
conferendo al prevosto il titolo di Vicario Foraneo. In questa faccenda ebbe
indirettamente parte chi stende queste brevi note, col raccogliere elementi
utili al prevosto per sostenere le ragioni della sua chiesa presso
l’arcivescovo.
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Interno del battistero.
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Al secolo XIX era riservato il restauro della
basilica nei suoi elementi il più approssimativamente originali. Nel 1874 una
Commissione venne mandata dalla Consulta Archeologica della Provincia di Milano
affinché riferisse su lo stato della basilica e del battistero; lavoro svolto
dal prof. Giuseppe Mongeri e dall’architetto Giovanni Brocca, che ne stesero
ampia e accurata relazione in data 18 marzo di quell’anno. Le proposte dei
relatori importavano un costoso lavoro, ragione per cui si attese ancora un
ventennio prima di accingersi all’opera, benché nel 1875 la basilica e il
battistero fossero dichiarati monumenti nazionali, limitandosi in quel periodo
di tempo alle più urgenti riparazioni sulla parte esterna delle absidi, e
all’isolamento del battistero. Finalmente nel 1893-95 il prevosto cav. Corbella,
tenace assertore del restauro (82) coll’aiuto di
offerte pubbliche e private, ottenne dall’Ufficio Regionale per la conservazione
dei Monumenti Nazionali della Lombardia che si procedesse ad un generale
restauro che fu affidato all’architetto Luca Beltrami coadiuvato dai colleghi
architetti Gaetano Moretti e Luigi Perrone; restauro generale che ora infatti si
presenta nell’elegante semplicità delle linee originali (83). Per mancanza di
mezzi rimase sospeso il restauro del battistero. A quest’ultimo pensò il
prevosto Don Luigi Primo Colombo (84). Nel marzo del
1907, previa approvazione dell’arcivescovo card. Ferrari, redasse e diffuse una
circolare « agli amatori dell’arte italiana e cristiana », sollecitandone i
mezzi necessari. Sotto la responsabilità del sopraddetto Ufficio Regionale di
Milano si pose di poi mano al suo restauro. Al’esterno, per tenere asciutti i
muri e salvare così gli affreschi, si scavò un fossato intorno al suo perimetro
base, largo e profondo circa un metro, con intorno una ringhiera di ferro
battuto; si otturarono le crepe e i buchi nei muri; si riparò il tetto; si
sistemarono le porte e le finestre. All’interno si rimisero in luce gli antichi
affreschi, e vi si ripose l’altarino nell’absidiola. Successivamente nel 1965,
con l’attuale prevosto Don Luigi Panzeri, si livellò parte del terreno presso il
battistero, togliendo ringhiera e fossato, per aprirvi un campo sportivo di
pallacanestro pur necessario per i ragazzi dell’oratorio. Soluzione per altro
forse non in tutto favorevole all’incolumità del battistero, che in quei giorni
ebbe pure a soffrire un inutile strappo di affreschi. In quella circostanza
venne inoltre sistemata in meglio la vecchia e fatiscente casa prepositurale,
tenendo calcolo dei suoi rapporti con la basilica. Comunque, affinché il sacro
complesso edilizio possa dirsi completamente restaurato non rimarrebbe che
trasferire altrove la sagrestia addossata alla nave meridionale (provvedimento
di difficile soluzione pratica). Studiosi ed amatori d’arte, italiani e
stranieri, non tralasciano di visitare l’interessante basilica e battistero. Tra
le molte, piace ricordare la visita fatta da Umberto I, re d’Italia,
nell’ottobre 1890, mentre villeggiava nella villa reale di Monza, e dalla regina
Margherita nell’ottobre dell’anno seguente, e quella di Mons. Achille Ratti, di
poi eletto Sommo Pontefice col titolo di Pio XI. Il vicariato di Agliate è
attualmente (1971) scomparso per la seconda volta, assorbito da quello di
Carate. Dal Concilio Vaticano II venne un fermento di gravi riforme, e fra
questa una nuova strutturazione dei Vicariati, per cui non pochi furono
soppressi. Altri, a suo tempo, diranno della più o meno opportunità, utilità, ed
efficacia di queste riforme.
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Interno della basilica.
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