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lunedì 13 agosto 2012

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di Giovanni Pititto. "Ignote sono le fasi più antiche della sua storia e anche la documentazione epigrafica di età romana e tardoantica si presenta di valutazione assai ardua. Del suo ruolo di capopieve nel Medioevo è fondamentale testimonianza il complesso edilizio della basilica dei Ss. Pietro e Paolo e del battistero. La documentazione scritta è estremamente scarsa (non si posseggono attestazioni certe sino alla metà del sec. 11°): di interpretazione discussa è in particolare un documento ricordato da Giulini (1760), che testimonierebbe la fondazione della canonica nel sec. 9° da parte di Ansperto, arcivescovo di Milano dall'868 all'881; ma il documento, già dubbio per lo storico, è andato perduto. Ampio materiale è invece fornito dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (sec. 13°; Magistretti, Monneret de Villard, 1917), che elenca con precisione le chiese dipendenti e i numerosi altari della basilica. Elementi preziosi sono forniti infine dalle visite pastorali per quanto concerne i problemi della conservazione e degli interventi edilizi dalla fine del sec. 16° in poi".


AGLIATE. - Frazione del comune di Carate Brianza, a nord di Monza. È alta 19 m. s. m. in regione collinosa e ridente. Possiede uno dei migliori avanzi dell'architettura lombarda, la chiesa di S. Pietro, costruita nel sec. IX. nel luogo di un'altra del secolo VI, a tre navate con copertura lignea, divise da colonne di pietra, sormontate tutte da are, da basi capovolte, da cippi sepolcrali adattati a capitelli ai quali sovrastano alti informi abachi. È stata restaurata recentemente con molto discernimento. Nella chiesa sono anche resti di affreschi del secolo XII. Importante è l'attiguo batttistero poligonale a nove lati, pure del sec. XII.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

 Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.

Agliate. Basilica e Battistero di Agliate. Foto di GP.


Sade - mixer
(condivisione: http://youtu.be/N9HHythVoL4)
(SADE Classics mixed by Vito D' Santi - Vito D' Santi·18 video - si ringrazia)
NOTE
(a cura di Losfeld)



Ill. da Serena Longaretti - Fernando Franco (a cura di), Lombardia. Guida ai monumenti, 1972, Milano, Automobile Club Milano, pag. 41.





AGLIATE
di Michele Craveri (in Enciclopedia Italiana, 1929. Edizione Istituto Treccani)
AGLIATE. - Frazione del comune di Carate Brianza, a nord di Monza. È alta 19 m. s. m. in regione collinosa e ridente. Possiede uno dei migliori avanzi dell'architettura lombarda, la chiesa di S. Pietro, costruita nel sec. IX. nel luogo di un'altra del secolo VI, a tre navate con copertura lignea, divise da colonne di pietra, sormontate tutte da are, da basi capovolte, da cippi sepolcrali adattati a capitelli ai quali sovrastano alti informi abachi. È stata restaurata recentemente con molto discernimento. Nella chiesa sono anche resti di affreschi del secolo XII. Importante è l'attiguo batttistero poligonale a nove lati, pure del sec. XII.
Bibl.: T. Rivoira, Le origini dell'architett. lomb., Milano 1908.
Agliate
di R. Cassanelli (in Enciclopedia dell' Arte Medievale, 1991, Edizione Istituto Treccani)
Agliate

Frazione di Carate Brianza, km. 10 a N di Monza, sulle rive del Lambro. Ignote sono le fasi più antiche della sua storia e anche la documentazione epigrafica di età romana e tardoantica si presenta di valutazione assai ardua. Del suo ruolo di capopieve nel Medioevo è fondamentale testimonianza il complesso edilizio della basilica dei Ss. Pietro e Paolo e del battistero. La documentazione scritta è estremamente scarsa (non si posseggono attestazioni certe sino alla metà del sec. 11°): di interpretazione discussa è in particolare un documento ricordato da Giulini (1760), che testimonierebbe la fondazione della canonica nel sec. 9° da parte di Ansperto, arcivescovo di Milano dall'868 all'881; ma il documento, già dubbio per lo storico, è andato perduto. Ampio materiale è invece fornito dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (sec. 13°; Magistretti, Monneret de Villard, 1917), che elenca con precisione le chiese dipendenti e i numerosi altari della basilica. Elementi preziosi sono forniti infine dalle visite pastorali per quanto concerne i problemi della conservazione e degli interventi edilizi dalla fine del sec. 16° in poi (Palestra, 1967).
L'indagine critica del complesso non può prescindere da un'analitica valutazione delle operazioni di restauro che coinvolsero in particolare la basilica nel 18° e soprattutto nel 19° secolo. Le visite pastorali testimoniano il suo cattivo stato di conservazione tra Cinquecento e Seicento; si dovette però attendere sino ai primi decenni del Settecento per un'ampia campagna di lavori promossa dal prevosto Pier Francesco Curioni (1724-1759). Nel 1874 si costituì una commissione a opera della Consulta Archeologica di Milano che progettò un restauro complessivo secondo criteri stilistici. Nel 1875 la basilica venne dichiarata monumento nazionale e si svolsero alcuni interventi minori. Le operazioni di restauro si compirono tra il 1893 e il 1895 secondo il progetto stilato dalla commissione a cura dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti, sotto la direzione di Beltrami, Moretti e Perrone. All'interno si ripristinarono le due originarie arcate della navata centrale verso E (soppresse e unificate nei lavori di Curioni), furono riaperte le finestre del lato nord e venne abbassato il pavimento. Durante lo scrostamento delle pareti si rinvennero lacerti di affreschi appartenenti alla prima fase decorativa; l'arredo liturgico venne interamente rifatto su progetto dell'Ufficio e presenta incisa la sigla "U(fficio) R(egionale) 1895". All'esterno, la muratura venne largamente risarcita, la facciata fu trasformata a frontone spezzato e il campanile venne demolito e ricostruito.
La basilica, orientata, presenta una struttura piuttosto semplice, strettamente legata al S. Vincenzo in Prato di Milano, ad andamento longitudinale, priva di transetto, scompartita in tre navate (di cui la centrale maggiore) da due file di sei sostegni per parte, che reggono arcate a pieno centro, con absidi terminali estradossate a profilo semicircolare. I sostegni sono fortemente eterogenei (oltre a colonne
di tipo diverso sono utilizzati un miliario e un'ara di età romana) e anche i capitelli sono ricavati da frammenti di spoglio (in un caso è invece reimpiegato un capitello romano con delfini ai lati di kàntharoi). La muratura della navata centrale sale alta e liscia, incisa alla sommità da monofore centinate a doppia strombatura (nel muro d'ambito settentrionale non vi sono invece aperture probabilmente per ragioni climatiche). La copertura del corpo delle navate è a capriate lignee. Il presbiterio è parzialmente sopraelevato per la presenza della cripta, ed è coperto da volta a botte; anche le absidi minori sono precedute da due campate coperte da volte a crociera, secondo uno schema comune anche al S. Ambrogio di Milano. La cripta, a oratorio, è scompartita da quattro coppie di colonne e coperta da piccole volte a crociera nervata, rinforzate da sottarchi, mentre il perimetro è scandito da semicolonne. I capitelli in pietra sono tutti coevi, a eccezione di uno, in marmo, che è di reimpiego, attribuibile al 9° secolo. Essi possono essere distinti in due tipi: il primo con foglie angolari lisce e sottili caulicoli fiancheggiati da solchi obliqui; il secondo a campana liscia con volute angolari sommitali e un debole motivo inciso su ogni faccia. I due tipi di capitelli, comunque, sono accomunati tra loro dall'assenza di scansione in registri e dal lieve risentimento plastico. Scarsissimi lacerti di affreschi (assai ridipinti e recentemente restaurati, 19851986) sono conservati sul muro nord della navata centrale e sulla volta a botte del presbiterio. La facciata, a frontone spezzato, ampiamente rimaneggiata nei restauri della fine dell'Ottocento, è incisa da tre portali (restaurati), due finestre centinate e un'ulteriore finestra sommitale a croce. Delle tre absidi solo la centrale presenta una forte articolazione mediante paraste che individuano - con ritmo variabile - fornici il cui numero si riduce proporzionalmente procedendo verso l'innesto con il muro del presbiterio. La muratura (assai risarcita nei restauri) è a filari di ciottoli, con pietre e mattoni di recupero, legati da abbondante malta.
Lungo il lato sud della basilica è il battistero, costruito con gli stessi materiali e la stessa tecnica, a pianta poligonale mistilinea con sette lati e un'ampia abside. La copertura è costituita da una cupola a spicchi. All'esterno l'edificio è coronato da un fregio ad archetti su sottili peducci sormontato da una serie di fornici; di particolare interesse è proprio, come nella basilica, la presenza del fornice slegato dal coordinamento degli archetti. L'interno è spoglio e strutturalmente semplice, a differenza del battistero di Galliano (Como), al quale è peraltro avvicinabile. Al centro è la vasca battesimale, sulle pareti sono interessanti lacerti di affreschi, anch'essi restaurati nel 1985-1986. Durante la visita pastorale effettuata da s. Carlo Borromeo (1578), smontando l'altare del battistero, si rinvenne una capsella liturgica esagonale, attribuita all'8°-9° secolo.
Il problema critico del complesso è strettamente legato al nodo capitale della sua collocazione cronologica. A eccezione di Dartein (1865), cui si deve il primo studio sull'argomento, orientato per una datazione a dopo il Mille, dalla seconda metà del sec. 19° in poi si volle ancorare l'edificio, seguendo l'esilissima traccia documentaria fornita da Giulini, alla data altissima del sec. 9°, legandolo alla committenza di Ansperto (Cattaneo, 1889; Porter, 1916) o di Angilberto II, arcivescovo di Milano dall'824 all'859 (Rivoira, 19082). La proposta ebbe generale e favorevole accoglienza, soprattutto in rapporto alla forte anticipazione cronologica del S. Ambrogio di Milano. Fondamentale importanza ebbe quindi l'intervento di Arslan (1954) che, fornendo una lettura accurata delle strutture, collocò basilica e battistero nel sec. 11°, proponendo, con cautela, di rintracciare piuttosto nel particolare tipo strutturale di ascendenza tardoantica un'eco dell'assetto della fase anspertiana del S. Ambrogio. E ciò naturalmente senza pregiudicare possibili articolazioni cronologiche all'interno di una fabbrica che senza dubbio (come paiono indicare alcune cesure nella muratura) ebbe gestazione complessa e forse non completamente unitaria (Caramel, 1984).
Bibliografia
Fonti:
G. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e campagna di Milano ne' secoli bassi, I, Milano 1760, p. 430.
 M. Magistretti, U. Monneret de Villard, Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, Milano 1917.
Letteratura critica:
F. de Dartein, Etude sur l'architecture lombarde et sur les origines de l'architecture romano-byzantine, I, Paris 1865, pp. 309-311.
R. Cattaneo, L'architettura in Italia dal secolo VI al Mille circa, Venezia 1889, p. 218.
G. T. Rivoira, Le origini della architettura lombarda e delle sue principali derivazioni nei paesi d'oltralpe, Milano 19082, pp. 196-200.
A. K. Porter, Lombard Architecture, II, New Haven 1916, pp. 31-35-
E. Arslan, L'architettura romanica milanese, in Storia di Milano, III, Milano 1954, p. 410 ss.
A. Palestra, Carate Brianza. Battistero di Agliate, in Studi e ricerche nel territorio della provincia di Milano, a cura di M. L. Gatti Perer (Monografie di Arte Lombarda. I Monumenti, 2), Milano 1967, pp. 42-44.
M. Mirabella Roberti, Itinerari per la Brianza romana, in Storia di Monza e della Brianza, IV, 1, Milano 1976, pp. 9-71: 19-20.
L. Caramel, I complessi di Agliate e di Civate, ivi, IV, 2, Milano 1984, pp. 9-41: 11-23, tavv. 1-10 (con bibl. precedente).
M. Magni, Scultura d'età romanica, ivi, pp. 255-282: 261-262, tavv. 76-77.
P. Tamborini, Pittura di età ottoniana e romanica, ivi, pp. 177-237: 181-186.
Itinerari di San Carlo Borromeo nella cartografia delle visite pastorali, Milano 1985, pp. 62-64.
G. Brucher, Die sakrale Baukunst Italiens im 11. und 12. Jahrhundert, Köln 1987, p. 26 ss. (S. Pietro), p. 96 ss. (battistero).
B. Brenk, La committenza di Ariberto d'Intimiano, in Il Millennio Ambrosiano. La città del vescovo dai Carolingi al Barbarossa, a cura di C. Bertelli, Milano 1987, pp. 122-155.
A. Segagni Malacart, Affreschi milanesi dall'XI al XIII secolo, ivi, pp. 196-221: 200.
F. Gandolfo, in A. M. Romanini, Il Medioevo (Storia dell'arte classica e italiana, 2), Firenze 1988, p. 285.
(da: http://www.treccani.it/enciclopedia/agliate_(Enciclopedia_dell'_Arte_Medievale)/)



















Opera








AGLIATE E LA SUA BASILICA
(Carate Brianza, 1971)


PARTE PRIMA - AGLIATE E LA SUA BASILICA
CAPITOLO I
Il Comune di Agliate - Le riforme di Maria Teresa e di Giuseppe II - I primi bilanci comunali - Il testatico - Agliate centro postale - Soppressione del Comune.


Nell'ambito territoriale del comune di Carate Brianza, in provincia di Milano, su la sponda sinistra del fondo valle del Lambro si adagia Agliate con la sua basilica di S. Pietro e Paolo. La circondano amene alture con case e ville signorili.
Ebbe nel passato una certa qual notorietà sia per la medioevale basilica, e sia perché capoluogo di pieve, e punto obbligato di passaggio del Lambro per largo giro all'intorno. Tuttavia il luogo, a differenza del vicino borgo di Carate, non ebbe avvenimenti locali d'importanza, data la piccolezza del suo territorio, e l'esiguo numero degli abitanti.
La popolazione, che al tempo di S. Carlo contava un centinaio di persone, doveva essere ancor meno nei secoli precedenti.
Nel censimento generale del 1862 il comune di Agliate aveva raggiunto dopo tanti secoli le 368 anime, con un'estensione territoriale di 87 ettari ossia quasi la metà di quella della pur piccola soprastante Costa.
E' col secolo XVIII che si incomincia, si può dire, ad avere sicure notizie del piccolo comune d'Agliate.
Il tramonto del secolo precedente doveva segnare la fine del nefasto governo spagnolo su le nostre terre, lasciando miseria e ignoranza, disordine e malandrinaggio.
La morte di Carlo II di Spagna (1° novembre 1700) senza eredi legittimi aveva suscitato aspri contrasti fra i vari contendenti alla successione. Dopo lunghe guerre, le quali, benché inframezzate da brevi periodi di pace, impedirono l'applicazione di necessarie riforme, finalmente nel 1748 col trattato di Aquisgrana lo Stato Milanese passò definitivamente all'Austria, iniziandosi un mezzo secolo di continua e feconda pace.
Sotto la spinta di nuove dottrine riformatrici che dalla Francia venivano diffondendosi, più o meno, in tutta l'Europa, si posero le condizioni per un rinnovamento economico e sociale; rinnovamento presso di noi propagandato da competenti studiosi quali il Verri, il Neri, il Carli, il Beccaria, ed altri.
Nel 1759 l'imperatrice d'Austria Maria Teresa, figlia di Carlo VI, mandava in Lombardia il trentino conte Carlo Firmian a reggerne le sorti, quale Ministro Plenipotenziario, e vi rimase fino al 1782. Ma forse più che il Firmian, un diligente burocratico esecutore di ordini superiori, fu il Kaunitz che da Vienna si interessò della Lombardia.
Le riforme introdotte durante il governo di Maria Teresa (†1780) e del figlio successore Giuseppe II († 1790) nella seconda metà di quel secolo furono di varia e complessa natura: amministrative, tributarie, giudiziarie, ecclesiastiche, territoriali, ecc.
Quelle del tempo di Maria Teresa furono prudentemente innestate sul passato, e perciò meno dottrinarie, accentratrici, e frettolosamente radicali di quelle di Giuseppe II, e nel loro complesso più pratiche ed efficaci.
In correlazione con le riforme comunali e provinciali, il primo gennaio 1760 entrò in vigore il nuovo censimento o catasto generale, iniziato nel 1719 e ultimato nel 1724. Venne redatto non più con la squadra, come si usava nel passato, ma con la più precisa tavoletta pretoniana inventata dal matematico olandese Pretorio nella seconda metà del secolo XVII.
Si erano formate altrettante precise e numerate mappe topografiche con delineate la figura e la situazione d'ogni appezzamento di terreno con relativa esatta misura, e nome del possessore, per ogni Comune dello Stato di Milano. A questa misura venne altresì annessa una nuova stima dei terreni stessi, in base alla loro coltura, e cioè se aratorio, prato, vigna, bosco, ecc., per una più equa distribuzione dei carichi (1).
Dal 1760 datano appunto i più antichi bilanci rimastici dei nostri comuni rurali. Il più vecchio bilancio del Comune di Agliate che possiamo conoscere è del 1762 (2)
Furono annullate le precedenti congregazioni o consigli comunitari, formati dagli anziani o capi famiglia del luogo, e loro eventuali privilegi e consuetudini, unificando le amministrazioni comunali.
Agliate, in quanto capo pieve, e nonostante i suoi pochi abitanti, conservò la sua antica autonomia comunale. Il nuovo consiglio, detto convocato, fu composto di tutti i possessori estimati nei quali di fatto primeggiavano i più ricchi, coi suoi tre deputati dell'estimo quali effettivi amministratori (una specie di assessori comunali), che restavano in carica un anno. Come tutte le altre comunità rurali ebbe un sindaco, quale legittimo rappresentante del convocato, un console con particolari attribuzioni (bandire gli ordini, indire le adunanze, presenziare gli atti amministrativi e giudiziari), un esattore per la riscossione delle imposte del cui gettito solo una metà spettava al comune, e un revisore dei conti. I bilanci, per mezzo del regio cancelliere delegato dovevano essere presentati all'autorità superiore per essere verificati ed approvati.
Tolto ogni privilegio, i civili ed i rurali furono giustamente eguagliati nel pagamento dei carichi terrieri, e delle altre imposte.
Obbligatorio per ogni comune tenere un proprio archivio. Nei convocati non doveva mancare la presenza del cancelliere delegato. Un ente insomma che si amministrava da sé sotto la tutela dell'autorità centrale.
Tutte queste riforme fecero sì che nella seconda metà del settecento, l'agricoltura, per non dire altro, fece poco a poco larghi progressi: si raddoppiarono i prodotti e i profitti; si dissodarono terre incolte; si intensificò la piantagione dei gelsi, la coltivazione dei bachi e la filatura della seta; si migliorarono le viti, i prati e i boschi; si introdussero dall'estero nuove piante e colture (platano, robinia, patata ecc.); si aumentò l'allevamento del bestiame ecc.

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Quei vecchi bilanci portano una piccola entrata ed una non meno piccola uscita. Fatte le debite proporzioni è quanto, più o meno, si verifica in tutti i comuni rurali grandi o piccoli che fossero.
Non si sentiva allora la generale necessità della istruzione pubblica, dell'igiene, delle facili comunicazioni, delle opere assistenziali, e di tant'altre esigenze che oggi una popolazione di campagna la quale voglia dirsi civile non può farne a meno. L'attività dei comuni continuava, si può dire, ad essere più che altro occupata nella distribuzione e riscossione dei carichi.
Le entrate e le uscite presero a crescere col passare degli anni, via via sino a noi, in correlazione al lento ma continuo progresso e benessere familiare e sociale.
In Agliate l'imposta prediale rendeva relativamente poco per la piccolezza del territorio, e, fors'anche perché i signori proprietari, che avevano nelle mani il potere, cercavano di risparmiarsi; e l'altra sul mercimonio, ossia dell'industria e del commercio (istituita nel 1773), fruttava quasi nulla. Da un ruolo redatto in quegli anni, in Agliate non esistevano che un oste, due postari del sale (uno per la parte della pieve al di là del Lambro, e l'altro per quella al di qua), un moletta (arrotino), un ferraio, un tessitore di lino e due mulinai.
Il maggior gettito proveniva dal testatico, che Maria Teresa aveva ridotto per tutti ad un massimo di lire sette per testa: colpiva i maschi dai 14 anni compiuti ai 60, esclusi gli ammalati, le donne, e le famiglie con 12 figli, esonerandoli, in compenso, dal tributo del sale e da altri oneri.
Imposta tuttavia sempre odiosa e mal sopportata dal popolo. Variamente manovrata nel passato, si era talora giunti a cifre intollerabili, per cui non pochi cercavano di sfuggirvi, emigrando clandestinamente negli Stati confinanti.
Ricorderemo infine come la comunità di Agliate possedeva ab antico un pascolo di pertiche 2.6. Questa sorte di beni comunali (detti comunanzie) affondavano le loro radici nel medioevo antico.

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Allorché in quei lontani tempi, data la dominante economia terriera, capitava la grandine od altre avversità per le quali andavano gravemente danneggiati o distrutti i raccolti, le cose si facevano quanto mai serie: nelle famiglie entrava la fame.
Così il 28 maggio 1477 quei della pieve di Agliate al di qua del Lambro supplicarono la reggente duchessa di Milano, Bona di Savoia, di poter procrastinare il pagamento della tassa sul sale, data la loro " extrema povertà et per la grande influentia de tempeste occorse quatro volte anno proxime delapso in queste parti, in modum non hanno percepte blade ne hano in altra fructi, seu minima cosa, stentano taliter de fame, che mangiano, per non aver pane, de le radici et herbe " ecc.
In altra lettera di quegli anni, un Alessandro de Besana postaro del sale della pieve d'Agliate al di là del Lambro, non potendo gli abitanti pagare per la " nimia paupertate et penuria bladi existente in ipsa plebe qui homines dicte plebis difficiliter vivere possunt ", domandava d'essere pur egli esonerato dal versare il relativo importo alla Camera ducale.
Il sale era allora monopolio statale. Altre consimili petizioni troviamo durante il successivo dominio spagnolo.
Le situazioni dolorose venivano aggravate dalla difficoltà di importare grani dall'estero, poiché in base alle dottrine economiche dominanti in quei secoli, gli Stati impedivano la libera esportazione delle granaglie coll'intento di mantenere l'abbondanza nei propri domini.
Nel 1343 la parte della pieve d'Agliate oltre il Lambro aveva questa consistenza: " bocche omini mazori n. 1427; minori 109; bestie bovine n. 302; campi 10894, vigna 1912, roncho 3330, prà 3437, boscho 9248 ". Dal che, approssimativamente, si può arguire quanto scarsa e povera fosse allora la popolazione, e come larga parte del terreno fosse ancora a boschi (3). Nella Brianza collinare non c'era posto per il latifondo, ma vigeva la piccola e media proprietà.

***
Agliate nell'ultimo quarto del secolo XVIII divenne un centro postale.
Il conte Firmian, con decreto del 20 maggio 1773 costituiva Carlo Giuseppe Scanziano pedone di Agliate, " convenendo, dice il decreto, al Cesareo Reale Servigio ed al pubblico comodo che vi sia un Pedone, o un Messaggiere a cavallo d'Offizio fisso, il quale venga regolarmente una volta la settimana nel giorno di martedì colle lettere di Agliate e sua giurisdizione a Milano per la via di Desio e fedelmente consegni le lettere e Pieghi di scrittura, o stampa, all'Ufficio Regio de' Pedoni, e da qui parta nel giorno stesso al dopo pranzo ritornando per la stessa via colle Lettere di questa Città, Stato e Forensi a Agliate da distribuire nel caso non vi sia colà un Commesso destinato a riceverle e distribuirle " (4).
Col novembre 1786 le pievi cessarono di essere considerate circoscrizioni territoriali nei riguardi della amministrazione civile. Vi si introdussero i Distretti costituiti da una o più pievi.
La pieve di Agliate con la squadra di Nibionno venne a formare il sesto distretto.
Né va dimenticato che, negli ultimi anni di quel secolo, troviamo Agliate dotato di una scuola d'istruzione elementare. Fatto notevole per quei tempi.

***
Nei documenti antichi, riguardo agli oneri dovuti dalla nostra pieve alla camera ducale, si trova di frequente distinta la parte al di là del Lambro (ultra Lambrum), da quella situata al di qua (citra Lambrum).
Il fatto trasse origine dal privilegio col quale Francesco I Sforza il 12 maggio 1432 rese immune ed esente in perpetuo la pieve di Agliate al di là del Lambro dalle imbottiture, e dai dazi del pane, del vino, e delle carni, e di altri oneri, conglobando il tutto in sole lire 300 imperiali da versare alla camera ducale ogni anno. Successivamente, dati i gravi bisogni dell'erario, il 17 febbraio 1436 furono aumentate a 360 lire, fermo restando quanto concesso nel decreto di esenzione (5).
La concessione venne fatta in considerazione della fedeltà al duca da parte di Filippo Casati e degli abitanti (cittadini e rurali) di questa parte della pieve, in momenti per lui difficili per la conquista del ducato.
Per questo la pieve di Agliate ultra Lambrum venne considerata anche ufficialmente come parte del territorio del Monte di Brianza, o Brianza come più semplicemente diciamo oggi.
Negli atti di visita pastorale del Card. Federico Borromeo del luglio 1608 si dice infatti che la chiesa plebana di S. Pietro e Paolo di Agliate, situata oltre il Lambro, era comunemente ritenuta da queste parti l'inizio del Monte di Brianza: " et dicitur initium Montis Briantie ". E allorquando nel 1388 i Cappuccini accettarono di erigere un loro convento a Verano, sulla sponda destra del Lambro di fronte ad Agliate, vi si nota che lo fecero anche perché da quell'altura si prospettava un ampio panorama sul territorio del Monte di Brianza (6). L'altra parte della pieve al di qua del Lambro (Carate, Albiate, Sovico, Verano, Robbiano, Giussano, S. Giovanni in Baraggia e Molini di Peregallo) il 20 febbraio 1478 era stata assegnata in feudo al conte Angelo Balbiani, figlio di Gabriele, in cambio di quello di Chiavenna e dipendenze richiamato alla corte ducale (7).
Le successive vendite di parecchi paesi fatte dai feudatari ne diminuirono la consistenza. Carate, il luogo più importante, rimase però sempre in potere dei Balbiani.
L'ultimo feudatario fu il canonico conte Don Benedetto, morto in Arosio il 2 agosto 1760 dove i Balbiani tenevano la loro dimora, e fu sepolto con speciali onori nella chiesa dei Cappuccini di Verano.
Quel tanto ch'era rimasto del feudo, ossia Carate e Albiate, poiché anche Sovico era stato perduto in una lite intentata e vinta dal nobile Pietro Lattuada (1722), ritornò alla Regia Camera. Respinte le ragioni di parecchi pretendenti, Carate passò in feudo ai conti Confalonieri, e Albiate a Giovanni Mellerio col titolo di conte.
Fu richiamato alla Regia Camera anche Giussano, essendo mancato il reale assenso alla vendita che il conte Alessandro e fratelli Balbiani avevano fatto nel 1688 al marchese Flaminio Crivelli, e concesso in feudo nel 1770 a Guido Mazenta col diritto di appoggiarvi il titolo di marchese.
Con la discesa dei rivoluzionari francesi nel maggio del 1796 tutto fu riformato alla francese; fra tante altre istituzioni scomparvero anche i feudi e loro titoli.
Il comune di Agliate durò fino al 9 febbraio 1869, nel quale giorno e anno, con regio decreto venne, con quello di Costa Lambro, aggregato a Carate Brianza.
Merita di essere ricordato il comm.re Dr. Prof. Antonio Rezzonico milanese, che amava soggiornare ad Agliate, il quale fu per 15 anni assessore della borgata di Carate, e resse con competenza le Opere Pie. In segno di gratitudine gli venne posta una lapide ricordo nel palazzo municipale. Morì nel 1905.











Facciata della basilica col secentesco campanile e la decrepita canonica, prima dei restauri.

***
Ma ormai Agliate non è più il paesello dei passati secoli, ma cammina di pari passo col progresso, e sta avviandosi verso i mille abitanti, dediti più all'industria che all'agricoltura.
Vanta un moderno convalescenziario per signore (già villa Albertoni), un Asilo, le Scuole Comunali, l'Ufficio Postale, e si onora persino di un Circolo di Cultura.
Da gente in gamba, come si suol dire, gli Agliatesi eressero un monumento, semplice e originario nel suo genere, ai suoi quindici caduti durante la grande guerra del 1915-18.
Non mancano negozi ben forniti e prosperose industrie locali fra le quali officine meccaniche e tintorie.
Ben tenuti alberghetti attirano clienti nella stagione propizia per godervi, con la frescura del Lambro, il pesce fresco, e se non del Lambro, pescato nel lago di Como o di altro laghetto brianzolo. Il pesce è ormai pressoché scomparso dalle acque del Lambro inquinate da ogni sorta di rifiuti, specialmente degli stabilimenti situati lungo le sue sponde (8).











Sezione longitudinale della basilica.


CAPITOLO II

Antichità del luogo - Popolazioni preistoriche - I Gallo Celti - Memorie romane - Agliate centro di un pago romano - Il ponte sul Lambro - Il castello medioevale - I Confalonieri Capitani della pieve - Gli Alliati conti Palatini di Milano - Agliate infeudato ai Crivelli col titolo di marchese.


La località è di origine antichissima.
Remotissime genti abitarono un tempo queste sponde lambrane, come ce lo provano i massi di mecascisto con incavature a forma di scodelle (probabilmente a scopo di culto) scavate dall'uomo nell'epoca neolitica in cui non si conosceva l'uso dei metalli, ed eseguite con lo strofinio di un ciottolo coll'aiuto di sabbia ed acqua; massi scoperti, e tuttora trovabili, nelle vicine boscaglie della cascina Peschiera.
Si scrive che nella preistoria prendessero dimora su le nostre terre gli Orobii, gli Etruschi, i Liguri, ed altri popoli, dei quali però ben poco, per non dir nulla, si conosce di certo, data l'oscurità in cui sono ravvolti.
Allorquando nel 222 circa avanti Cristo, le legioni di Roma per la prima volta giunsero sulle nostre terre, entrando vittoriosamente in Milano, vi erano stanziati i Galli, di stirpe celtica, scesi d'oltre Alpi quattrocento anni prima della venuta di Cristo, secondo la tradizione liviana, la cui capitale era Milano.
Gente guerriera, dedita alla pastorizia più che all'agricoltura. Col passare degli anni furono completamente domati dai Romani, i quali rispettarono le loro circoscrizioni territoriali, i loro culti religiosi, le loto tradizioni familiari e sociali, purché non contrarie alle leggi di Roma. Tuttavia man mano finirono coll'entrare nell'ambito della civiltà romana.

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Scrisse il Corbella che alcuni vorrebbero Agliate di origine gallica, ammettendo una facile e lieve sottrazione di lettera (G alliate = Galliate), mentre per altri tal nome sarebbe derivato da 'alea' = sorte, con cui si intitolava una legione romana, che qui avrebbe avuto stanza in premio dei suoi meriti. Sono supposizioni che hanno del fantastico.
Forse più consono a verità è il far derivare l'etimo dal gentilizio romano Allius, Alius molto diffuso nella Gallia Cisalpina (9).
Si è pure pensato che, durante la dominazione gallica, il luogo d'Agliate sia stato un centro del culto druidico. La cosa per sé non è inverosimile. La località infatti, allora ben più boscosa che non al presente, si prestava molto bene: quel culto infatti si esercitava generalmente nel silenzio dei boschi e delle selve (10).
Comunque sia, Agliate rimonta a tempi che si perdono nel buio di lontani secoli.

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Se del periodo gallico nulla ci è rimasto, di quello romano si hanno non poche memorie sia in Agliate che nei dintorni (Verano, Robbiano, Valle Guidino, ecc. (11). Alla cascina Peschiera di Carate, l'avello che
tuttora raccoglie l'acqua sgorgante da una fonte, se ben lo si considera, non è altro che un sarcofago romano.
L'Amoretti, parlando della lapide dell'aruspice Veraciliano, oggi perduta, la dice trovata " nel distrutto castello di Agliate, con qualche pezzo antico e varie monete d'argento e di bronzo assai pregevoli delle famiglie Gracca, Suffenate, Planca, di Giulio Cesare, d'Adriano, di Federico II e dei Visconti, e alcuni lavori in argento e in rame indorato de' tempi di mezzo. Sia questa iscrizione, che quelle che leggonsi nella chiesa di Agliate stessa, forse appartennero un tempo a luogo più vicino e cioè a Robbiano, ove negli scorsi mesi furono dissotterrati alcuni bei pavimenti a mosaico e altri avanzi di romana costruzione, intorno a' quali le ulteriori ricerche somministreranno senza dubbio maggiori lumi " (12).
Che questa iscrizione e le altre, di cui parla l'Amoretti, siano forse provenienti da Robbiano potrebbe darsi, almeno per qualcuna, ma non è certo.
Nel quarto secolo, quando Milano divenne sede imperiale, e una delle città più importanti dell'Occidente tanto da essere chiamata una seconda Roma, l'alto milanese e i laghi esercitarono una grande attrattiva sui cittadini di allora, scegliendoli come luoghi di villeggiatura. Il territorio, solcato da grandi e piccole strade, poteva meno faticosamente che nel passato comunicare con la città e con i centri minori.
Benché il Lambro, lungo il suo percorso, possa avere avuto più di un passaggio, è assai verosimile che vi fosse ad Agliate un ponte romano, per quanto di esso non ci siano rimaste tracce (13). Ce lo fa supporre il luogo stesso, centro di un pago romano e di poi capo pieve cristiana, dove vi confluivano e vi divergevano strade vicinali ed altre più importanti che allacciavano il centro della Brianza con Monza e Milano da una parte (toccando Carate, Monza, Milano; oppure Carate, Seregno, Desio, Nova, Milano) e, dall'altra con il Comasco (passando per Verano, Robbiano, Giussano, Carugo, Cantù, Como).
Si è scritto che S. Agostino, il quale nell'autunno del 386 se ne venne da Milano a Cassago nella villa campestre dell'amico Verecondo per rimettersi in salute e prepararsi al battesimo, sia passato da Agliate. Il fatto non è inverosimile se si ammette che Cassago corrisponda al Cassiciacum di S. Agostino (14).
Che vi transitasse inoltre una strada romana Milano-Agliate-Como non mi sembra credibile (15) perché il luogo era ed è troppo fuori mano rispetto a Como. D'altronde nulla ce lo prova. La vera strada Milano-Como partiva da Milano, e accostando Seveso, Barlassina, Cantù, raggiungeva Como. Nel medioevo era per l'appunto detta strada vecchia, percorsa anche da San Pietro Martire ucciso presso Barlassina nel 1252.
L'alta Brianza era invece attraversata dalla Como-Bergamo, passando l'Adda sul ponte romano di Olginate (16)
E poiché territorialmente, e in linea di massima, le pievi cristiane, si vuole che corrispondano al precedente pago romano, ne segue che Agliate, situata nel centro di un vasto distretto o pago celtico-romano che si stendeva al di qua e al di là del Lambro, ne doveva essere il capoluogo. Al sacro edificio pagano, ivi esistente, vi convenivano i pagensi delle due sponde per le comuni funzioni religiose, per il mercato, e per trattare gli affari inerenti al pago stesso, il quale aveva i suoi propri magistrati, per cui risulterebbe evidente la necessità di un ponte in luogo (17).
Nulla per altro ci autorizza a pensare che nell'età romana ci fossero fortilizi o soldati di guardia alla strada e al ponte, e che la soprastante Costa fosse adibita ad accampamento notturno dei soldati del presidio. Sono ciance popolari. Il nome di Costa non ha niente a che fare col significato di castello (castrum): esso ci richiama la Costa (o Costiera) di Trezzo, Costa Masnago, Costalunga e tant'altre località distinte con questo nome.
Un ampio e forte castello ebbe invece Agliate nel medioevo.
Sorgeva in alto su quel di Costa, e non alla Rovella come si è pensato da qualcuno.
Ce lo attesta una cartina topografica del secolo XVI, e il cui ricordo è rimasto legato ad un appezzamento di terreno sul quale nel 1962 fu costruita una casa. Il luogo è detto tuttora il castello, ed è situato all'estremo lembo dell'altipiano sovrastante il fiume nelle vicinanze del nuovo ponte e della nuova strada provinciale che da Carate procede per Villaraverio, Besana, Barzanò, Oggiono, Lecco. Quel Castello è dichiarato "Castello de Aià " (18)
Si noti che Costa nel Medioevo si chiamava altresi Castellanza di Agliate, e non Costa Lambro. Quest'ultima denominazione l'ebbe con regio decreto del 14 dicembre 1862, quasi a rendere più evidente il suo distacco da Agliate. Ciò nonostante sette anni dopo, come si è detto, finì coll'essere incorporata con Agliate nel vicino grosso borgo di Carate. Nel passato al disotto di quel castello non c'era alcun ponte sul Lambro, ma fitte boscaglie degradanti verso la sottostante cascina Peschiera, con la quale, secondo una leggenda popolare, sarebbe stato in comunicazione mediante una strada sotterranea.
Il Lambro veniva ordinariamente attraversato ad Agliate dove stava il ponte.
Fu nel primo ventennio di questo ventesimo secolo che si costruì la nuova strada provinciale con il relativo ponte, personalmente benedetto e inaugurato dall'arcivescovo di Milano card. Ferrari.
Quando e da chi venne fatto costruire il castello, e a quali vicende andò soggetto, e quando distrutto non si conosce. Non si possono fare che delle congetture più o meno attendibili.
Potrebbe darsi eretto nell'ultimo quarto del secolo IX, o non molto dopo, dai Confalonieri i quali, secondo alcuni scrittori, avrebbero avuto in quel tempo l'investitura del Capitaneato della pieve; e probabilmente distrutto, o quanto meno gravemente diroccato, sul finire del secolo XIII o nei primi anni del seguente, in conseguenza della grave condanna e confisca dei beni inflitta nel 1295 all'ostinato eretico Stefano Confalonieri di Agliate.
Nei secoli seguenti troviamo i Confalonieri residenti alla Rovella, pur continuando a mantenere, per lo più, stabile dimora in Milano.
Questa famiglia non sarebbe originaria del luogo, ma proveniente dalla stirpe di Ansperto da Biassono, arcivescovo di Milano dall'869 all'881, i di cui familiari furono di poi detti Confalonieri per via del privilegio, che si dice loro concesso dallo stesso arcivescovo, di portare il confalone davanti agli arcivescovi di Milano, quando facevano, cavalcando, la loro prima entrata solenne in città (19).
L'arcivescovo Ottone Visconti nel 1277, li comprenderà nel catalogo delle famiglie nobili milanesi, dalle quali dovevano scegliersi gli Ordinari del Duomo di Milano.
Alcuni ritennero che i Confalonieri d'Agliate avessero il titolo di conte nel secolo XIII. Ma con molta
probabilità è da ritenersi inverosimile, per quanto anche Ignazio Cantù lo affermi nelle sue vicende della Brianza (20). Non è documentabile.
Sappiamo invece di certo che parteciparono alle vicende milanesi al tempo della Lega Lombarda. Nel marzo del 1167 a Cremona giurarono capitoli di concordia le città di Cremona, Milano, Mantova, Bergamo, Brescia. Tra i firmatari da parte dei milanesi vi era, oltre un " Albertus de Carate ", un " Confanonerius de Aliate " (21).
Di questa casata rimasero tristemente celebri un Eriprando, condottiero dei nobili contro il popolo, il quale fuggiasco in terra bergamasca con altri nobili milanesi, avrebbe nel 1259 sollecitato il feroce Ezzelino da Romano ad invadere il Milanese; e il soprannominato Stefano che favoriva e proteggeva eretici, ricoverandoli nel lontano sicuro castello d'Albogasio in Valsolda, se non forse anche in quello di Agliate.
Ebbe costui parte importante nel tramare la morte del domenicano Pietro da Verona, e fu lui che se ne venne a Giussano a consegnare il denaro ai soci congiurati per pagare i sicari. Per questo il 12 aprile 1252 fu messo al bando dal Podestà di Milano. Incorreggibile fu condannato a perpetua prigionia il 21 gennaio 1260. Trovò modo di evadere dalla prigione e di mantenersi in libertà col favore delle discordie sopravvenute fra la Chiesa e la città di Milano, continuando nel suo operare, finché nel 1295 caduto di nuovo nelle mani degli inquisitori fu come si è detto duramente condannato e confiscato dei suoi beni.
Col passare degli anni i Confalonieri d'Agliate si suddivisero in più rami, i quali, oltre che in Milano, presero residenza nei circonvicini paesi della Brianza e altrove.
Ignazio Cantù ricorda, ad esempio, un Valerio dei Confalonieri d'Agliate che nel 1558 si laureò in diritto, e quindi eletto consultore del Sant'Ufficio. Uomo di molta dottrina sostenne molte preture, e da ultimo fu eletto senatore. Ritornato alla nativa Carate per rimettersi in salute vi mori nel 1625 e qui in chiesa fu sepolto.
Alcune famiglie per via di cariche o di censo si mantennero in chiara nobiltà, le altre scesero nell'oscurità e finirono coll'abbandonare il distintivo " de Aliate ", conservando il solo cognome generico di Confalonieri.
La nobile casata patrizia dei Confalonieri d'Agliate si estinse nei marchesi Cusani. La villa e la chiesuola della Rovella, dopo essere state da ultimo proprietà dei conti Albertoni, finirono acquistate da una congregazione religiosa e trasformate in una Casa di Riposo per signore.

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Da Agliate trasse invece origine la casata milanese degli Alliati (de Aliate), che al pari dei Casati, Giussani, Robbiani, ecc. assunsero il cognome dal luogo di provenienza.
I cognomi si formarono dopo il Mille col sorgere e svilupparsi del Comune cittadino. Nel precedente periodo curtense e feudale col sistema di vita chiusa non era avvertita la necessità di pubblicamente differenziarsi gli uni dagli altri.
Non così col Comune. Le molteplici magistrature comunali alle quali venivano man mano a partecipare tutte le classi cittadine accresciute dall'immigrazione di nuove genti dal contado; le industrie e i commerci che moltiplicavano l'intrecciarsi dei rapporti sociali; il battagliare dei partiti fra di loro; il mutare di idee e di costumi fece si che si costituissero le diverse consorterie o casate, e che ognuna si distinguesse con diverso cognome familiare. I cognomi provengono infatti o dal luogo di origine, o dai soprannomi, o dalle arti o mestieri esercitati, ecc. e sorsero dapprima nelle città, prerogativa dei nobili e dei ricchi, per quindi necessariamente diffondersi in tutte le classi sociali.
Il nome di persona precede sempre il cognome.
Della parentela degli Agliati o Alliati abbiamo nel 1167 al 22 maggio la presenza di tre individui quali testimoni da parte del Comune di Milano nella redazione dell'atto solenne con il quale le città di Cremona, Milano, Bergamo, Brescia giurarono concordi patti d'alleanza coi Lodigiani.
Altri Agliati emersero nei secoli XII e XIII nelle cariche cittadine.
Nel 1209 quattro fratelli "de Aliate" Gallino, Burgondio, Pietro e Ruffino, per particolari benemerenze, furono dall'imperatore di Germania Ottone IV creati conti Palatini di Milano (22). Donde le sopravvenute leggendarie dicerie sui conti d'Aià del secolo XIII.
Non va confuso, equivocando, il cognome col luogo, come ha fatto qualcuno ritenendoli conti del luogo di Agliate, e men che meno chi ha ravvisato in quei conti i Confalonieri d'Agliate.
Gli Agliati, a differenza dei Confalonieri, non lasciarono tracce in luogo e nemmeno nei dintorni.
Ci furono, per verità, se non i conti, i marchesi di Agliate. Mentre la parte della pieve al di qua del Lambro, come si è detto, veniva assegnata fin dal 1478 ai conti Balbiani, l'altra metà situata al di là del Lambro non sfuggì neppur essa dall'essere più tardi infeudata dal governo di Spagna continuamente bisognoso di denaro. Infatti Flaminio Crivelli, figlio di Tiberio, divenuto feudatario di Agliate e di altri paesi della pieve al di là del Lambro con investitura del 1° ottobre 1651, ottenne da Filippo IV di Spagna, con diploma 20 febbraio 1654 interinato il successivo 16 luglio, il titolo di marchese da appoggiarsi su Agliate, per sé e discendenti maschi legittimi o illegittimi in linea primogenita. Ne venne la casata dei marchesi Crivelli d'Agliate, che tuttavia tenne il suo centro feudale ad Inverigo (23)



CAPITOLO III

La diffusione del cristianesimo nella Brianza - Origine della pieve di Agliate - S. Dazio - La pieve durante la dominazione longobarda - Le riforme Carolinge - La vita regolare canonica nel clero.

L'editto promulgato dall'imperatore Costantino a Milano nel 313 chiuse l'era delle persecuzioni, e rese meno difficoltosa la propaganda del cristianesimo nelle regioni dell'Occidente.
Tuttavia tardiva e lenta fu la sua diffusione nei pagi e nei vici delle nostre campagne, e ciò, anche senza tener calcolo dell'intermezzo di Giuliano l'Apostata, sia perché i vescovi si trovavano in quel tempo impegnati a lottare non solo con l'idolatria, ma particolarmente coll'arianesimo per cui c'era molto da fare nelle città; e sia perché i nostri rurali di stirpe gallo-celtica, dispersi nella boscosa campagna di allora, con non facili comunicazioni con Milano, si dimostravano per lo più refrattari al nuovo culto, tenaci delle loro tradizioni religiose, familiari e sociali.
Dobbiamo scendere verso l'ultimo quarto di quel secolo, a S. Ambrogio, per trovare una situazione veramente favorevole all'espansione del cristianesimo nelle campagne. Le parti si erano invertite: l'autorità civile e religiosa si davano efficacemente la mano nella lotta contro il paganesimo duro a scomparire. Benché non consti espressamente, è lecito pensare che il nostro santo patrono non abbia trascurato l'agro della sua diocesi. Nel De officiis, I, 50, sembra infatti che si accenni a sacerdoti rurali.
E' comunque verso il finire del IV secolo che deve essersi iniziata una metodica e proficua predicazione nella campagna milanese, e in quella delle altre diocesi lombarde dai rispettivi Vescovi (Como, Brescia, Novara, ecc.): ormai gli abitanti delle città erano in gran parte cristiani.
Sia come si vuole, una sol cosa è veramente certa, ed è che le prime memorie cristiane nella Brianza datano dalla seconda metà del secolo quinto.
Di questo tempo sono le più antiche iscrizioni cristiane che si conoscono, e rinvenute là dove sorsero le primitive chiese battesimali di Galliano, Garlate, poiché allora era in uso farsi seppellire presso le chiese. Di preti vi è menzione nella prima metà del VI secolo a Galliano, Lecco, Agliate, e fors'anche fin dall'ultimo quarto del secolo precedente a Galliano e a Garlate.
Ciò proverebbe che non solo nei primi tre secoli, secoli di persecuzione, ma ben anche nel quarto secolo inoltrato il cristianesimo facesse scarsi progressi nelle nostre popolazioni di campagna. Infatti in quei primi quattro secoli nulla di cristiano si incontra nella Brianza e nelle zone circonvicine; né una tomba, né un rudere di sacro edificio, né altro che richiami la presenza della religione di Cristo, mentre d'altra parte continuano di tanto in tanto a venire alla luce tombe od oggetti pagani. Con questo non intendo negare che ci possono essere stati qua e là dei cristiani fra i rurali fin dal IV secolo, ma dovevano ancora essere ben pochi, diversamente ce ne sarebbe rimasta qualche traccia (24).
Ad ogni modo quando precisamente, e in qual modo, e da chi sia stato introdotto nella Brianza il cristianesimo non si conosce, né forse si saprà mai.

***
Coll'affermarsi della nuova religione, al delubro pagano si sostituì la chiesa battesimale; e, come si è detto, il territorio del pago formò, per lo più, la prima parrocchia rurale o pieve, dipendente dal vescovo diocesano. Quella di Agliate fu tra le più vaste ed importanti; comprendeva i Vicariati foranei di Besana e di Carate.
Per la sua veneranda antichità, direbbero gli atti del visitatore regionale Giovanni Calchi (1742), il prevosto di Agliate occupò nei Sinodi Diocesani il posto più distinto come risulterebbe, sempre al dir del Calchi, dai Libri del Maestro delle Cerimonie nella Metropolitana.
Si può ritenere quasi per certo che, quando ad Agliate fu predicato il Vangelo, nel luogo vi dovesse sorgere un delubro o santuario pagano dedicato ad una divinità, quale fosse impossibile dire, molto venerata dalla gente dei dintorni. Subentrato il culto al vero Dio, la stessa opportunità pratica avrebbe indotto a far sì che Agliate, a preferenza di altre località circonvicine di maggior popolazione, divenisse capo pieve, continuando in senso cristiano la sua antica funzione di capo luogo pagense. A parer mio, è questa l'unica e vera ragione, né saprei indicarne altra, del perché il minuscolo e allora boscoso luogo di Agliate sia divenuto capo pieve. Ed è altrettanto logico il supporre come si è accennato, l'esistenza di un ponte che, allacciando le sponde del fiume, unisse le due parti del territorio.
Un'iscrizione cristiana di Agliate, attribuita al 540, ci ricorderebbe la madre di un prete chiamato Garibano.
Congetturando su questo prete, e sulla diceria che S. Dazio (arcivescovo di Milano dal 528 al 552) sia nato in Agliate, si è pensato, come non inverosimile, di attribuire l'erezione della basilica al secolo VI e allo stesso S. Dazio.
Scrive infatti il Corbella: "chi ne proibisce di credere o di almeno supporre che questa basilica d'Agliate, costruita dalle fondamenta dal suo S. Dazio a metà del secolo VI, e forse da altri prima, dopo tre secoli e precisamente nel IX secolo non siasi trovata nel bisogno di venire restaurata, o che siasi modificata secondo il gusto dell'architetto del munificentissimo Angilberto II (che ebbe trentasei anni di pontificato) o che poi Ansperto stesso, volendo stabilire qui una collegiata, non abbia anche ordinato un restauro e questo sul modello del S. Ambrogio? " (25).











Battistero
Che S. Dazio sortisse i natali in Agliate dalla famiglia degli Alliati non solo non è provato, ma ci mancano seri indizi per supporlo. È significativo il fatto che di lui non vi è cenno non solo nelle visite pastorali, ma che nessun altare, nessuna immagine o affresco in chiesa, nessuna festa in suo onore, nessuna antica tradizione od altro, che comunque lungo i secoli lo ricordi in Agliate.
Altri non meno fantasticamente lo vorrebbero della famiglia degli Alciati. Sono tutte favole che fanno il paio con quella che direbbe S. Simpliciano nato a Beverate, presso Brivio, dalla famiglia dei De Capitanei, e con l'altra che farebbe S. Mona nativo di Corbetta dalla stirpe dei Borri, ed altre consimili. Il nome ufficiale di Borgo S. Dazio, dato alla vecchia porzione dell'abitato d'Agliate presso il fiume, e formato di poche vecchie case addossate l'una all'altra, non è antico ma recente, voluto dal prevosto Luigi Colombo, il quale ci teneva a ritenere agliatese S. Dazio. Il luogo, che prima non aveva distinzione di sorta, si chiamava volgarmente"el borg di och".
Nondimeno, pur prescindendo dall'epigrafe del 540 e dalla leggenda di S. Dazio, si può ragionevolmente ammettere che in Agliate sorgesse già in quel tempo qualche sacro edificio battesimale (non però l'attuale basilica e battistero), per il fatto che verso la metà del secolo VI la Brianza era ormai pressoché tutta cristiana, per quanto perdurassero certe usanze pagane dure a scomparire, e il suo territorio diviso in pievi per la necessaria assistenza religiosa delle rispettive popolazioni, non essendo più possibile scendere tutti gli obbligati in città alla chiesa diocesana per il battesimo e le altre funzioni di precetto.
Le pievi briantine o primitive parrocchie rurali sarebbero pertanto sorte lungo il secolo quinto e nella prima metà del seguente dove prima e dove dopo, a seconda delle necessità e delle circostanze, sistemandosi via via in meglio col passare del tempo. E' evidente che l'erezione di una pieve richiedeva, per lo meno, una larghissima se non totale, espansione del cristianesimo in una data zona o distretto rurale.
Tutto questo lo affermiamo sempre in linea generica. Come non è possibile per deficienza di documenti conoscere con certezza quando e come prese a diffondersi il cristianesimo nella Brianza, altrettanto impossibile è precisare l'anno in cui sorsero e si organizzarono nelle campagne le prime chiese battesimali e non battesimali. Si mettono in campo diverse ipotesi, ma in realtà, compresa pur quella che si basa sul santo titolare della chiesa stessa (26), per gran parte non sono che vedute personali, le quali in sostanza lasciano sempre incerti.
Capita poi talora, quando ci si appassiona con fervore ad una data ipotesi, di sopravvalutare, anche senza volerlo, fatti ed indizi, rischiando di fare dir loro quello che interessa che dicano.
Sia come si voglia, nulla si oppone, ripeto, a che si possa, con tutta probabilità, ammettere in Agliate, verso la metà del VI secolo un centro plebano battesimale col relativo clero, composto di una o più persone viventi in una certa qual comunanza di vita, secondo l'uso ecclesiastico allora in vigore presso il clero della sede episcopale diocesana, sulla quale si sono modellate le nostre pievi. Quella di Agliate fu dedicata ai santi apostoli Pietro e Paolo. Quest'ultimo, come per tante altre chiese, sembra sia stato aggiunto più tardi.
Per il fatto di questa dedica, la si vorrebbe da taluno sorta verso la metà del secolo VII in pieno dominio longobardo, e territorialmente a spese di quella di Missaglia (dedicata a S. Vittore) e fors'anche in parte di quella di Mariano (dedicata a S. Stefano) (27).
Il congetturarla eretta in quel tempo solo perché dedicata a S. Pietro, non ha, a mio avviso, una seria base di consistenza.
Risulta infatti dalla storia ecclesiastica che il culto a questi due principali apostoli (Pietro e Paolo) risale fino ai primi secoli della Chiesa, ed anche le nostre popopolazioni indigene lo praticavano già prima dell'invasione dei Longobardi. A meno che si possa documentare che la nostra pieve sia stata veramente eretta verso la metà del secolo VII. Il che allo stato attuale delle ricerche storiche non è possibile.

Pianta della basilica, battistero e campanile.

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Delle nostre pievi durante il dominio dei Longobardi, che durò oltre due secoli (568-774), ben poco si conosce.
Mentre consta che regnanti e signori Longobardi, dopo la loro conversione al cattolicesimo, incominciata con la regina Teodolinda sul cadere del VI secolo e ultimata verso la fine del seguente, hanno eretto chiese private e talora anche monasteri e xenodochi, - ed infatti per quello che riguarda la Brianza si attribuisce a Teodolinda la chiesa di S. Giovanni Battista in Monza, al re Cuniberto il monastero ossia la collegiata di San Giorgio in Cornate d'Adda, al re Desiderio la chiesa di S. Pietro sul monte sopra Civate, ecc., - nessun cenno si ha di erezione di nuove pievi né da parte dei Longobardi e nemmeno dei nostri arcivescovi, all'infuori di quella di Desio che si vorrebbe fondata dall'arcivescovo Giovanni Buono nel 649.
La fondazione e la distrettuazione delle pievi cristiane, come delle diocesi, fu sino dalle origini di spettanza dell'autorità ecclesiastica, e la Chiesa per sua natura fu sempre incline a spirito conservativo, come si può desumere anche da qualche lettera del pontefice S. Gregorio Magno (Epist., lib. IX, lett. 115, 116).
Forse ai Longobardi non interessava gran che la fondazione di pievi, in quanto divisero i loro territori in Iudiciarie, Centene e Decanie.
Non si può tuttavia escludere in modo assoluto che, in via di eccezione, possa essere stata eretta qualche altra pieve nella campagna milanese oltre la sopradetta di Desio, oppure trasferito qualche centro plebano in altro villaggio più importante della stessa pieve, o fors'anche cambiato qualche santo titolare.
Comunque sia, sta il fatto che, tranne per la pieve di Desio, non vi è parola, ch'io sappia, dell'erezione di nuove pievi né in Brianza né altrove nei territori confinanti, nemmeno in dedicazione a S. Michele e a San Giorgio, due santi tipici del culto longobardo (28).
E' ovvio, che se fossero state erette, ce ne sarebbe rimasta in un modo o nell'altro qualche memoria, come rimase per altre loro chiese private.
Si può pertanto ragionevolmente supporre che le pievi, come le diocesi, non andarono soggette, nel loro complesso a radicali rimaneggiamenti, ma soltanto a confusioni o ad usurpazioni nei loro territori di confine.
Nel secolo VII vi sarebbe stata un'immigrazione di monaci e di preti orientali nel milanese, scacciati dai loro paesi dalle guerre islamiche, i quali si sarebbero fusi col nostro clero. Ma quale influsso abbiamo potuto avere sulla disciplina ecclesiastica e sul rito ambrosiano è difficile precisare.
Per quello che riguarda particolarmente le nostre pievi briantine, nulla sappiamo di certo, benché qualcuno abbia pensato di far rimontare alla prima metà del secolo VII le pievi di Incino e di Oggiono, dichiarandole di ispirazione tricapitolina e forse aventi rapporti con la diocesi di Como, in quanto ambedue dedicate a S. Eufemia (29). Ma, ripeto, non sono che incerte congetture.
D'altra parte si stenta a credere che Incino, località importante già dal tempo della dominazione romana, possa aver aspettato fino al VII secolo ad avere un sacro edificio plebano battesimale. Altrettanto, presso a poco, si dica per Oggiono dove non mancano memorie romane.

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E' per altro certo che i Longobardi lasciarono una scia di disordine nel campo religioso (imbarbariti i costumi, edifici sacri deperiti, rilassatezza nella disciplina ecclesiastica, confusioni e usurpazioni nei territori di confine delle diocesi e delle pievi, ecc.), come ce lo provano le riforme intraprese, dopo la fine del regno longobardo, dai Pontefici, dai Vescovi, dall'imperatore Carlo Magno e successori (30).
Tra l'altro, nell'824 l'imperatore Lotario volle che ogni chiesa plebana avesse ben definiti i confini del suo distretto, e precisati i villaggi dai quali esigere le decime.
Saggio decreto, osserva il Giulini, perché così le pievi furono precisate nel loro ambito territoriale e giurisdizionale, e tali si conservarono, fatta qualche rara eccezione, lungo i secoli, tanto più che i governi stessi per pratica comodità amministrativa adottarono nel civile tale circoscrizione territoriale (31).
Successivamente nella Dieta di Pavia dell'850, tenuta alla presenza di Ludovico II ed alla quale partecipò l'arcivescovo di Milano Angilberto II, si stabilì al c. 13 che ad ogni pieve dovesse sempre presiedere un arciprete il quale avesse cura del popolo e dei sacerdoti residenti presso i titoli minori della stessa pieve, anche se il Vescovo credesse di farne a meno.
Nel Capitolare di Pavia dell'876, presenti Carlo il Calvo e l'arcivescovo milanese Ansperto, al c. 7° si richiamò l'obbligo a tutti i laici, compresi i nobili ed i potenti, di partecipare alle sacre funzioni della propria chiesa plebana, e che nessuno osasse far celebrare nei propri oratorii senza licenza del Vescovo. Qui si tratta delle chiese private signorili sorte specialmente coi Longobardi e coi Franchi.
Titoli minori erano dette le chiesuole vicane costruite nei singoli villaggi della pieve, la quale continuava ad essere la primitiva parrocchia rurale.
La buona riuscita di questi ed altri richiami era condizionata ad una regolare vita canonica del clero, che l'autorità religiosa e civile si sforzò di imporre fino dalle prime riforme.
E' noto che l'imperatore Carlo Magno voleva " omnes clerici aut monaci aut canonici " (Capitolare del 789).
Si è scritto che il clero agliatese abbracciasse tale sistema di vita durante l'episcopato di Angilberto II nella prima metà inoltrata del secolo IX, mentre altri ritennero che ciò sia avvenuto alquanto dopo con l'arcivescovo Ansperto.
Si trattava di un vivere quasi monacale che riusciva pesante alla maggior parte dei sacerdoti. Infatti quel tanto di vita in comune che, qua e là specialmente nelle cattedrali, si riuscì ad introdurre non ebbe lunga durata fors'anche perché il secolo X fu uno dei più agitati della vita milanese.
L'ambiente sociale era ancora, si può dire, quasi semibarbaro.
Verrà rimesso in vigore più tardi, come mezzo per una maggior santificazione del clero, dal pontefice Gregorio VII († 1085), entrando fra di noi nella pratica sul finire del secolo XI. Ma, trascorso un certo lasso di tempo incominciarono a fermentare nuovi germi evolutivi che avrebbero non solo condotto allo sfasciamento della vita canonica, ma della stessa pieve.


CAPITOLO IV

Erezione delle basilica - La cripta - Il battistero - Le sacre Reliquie.

Fiancheggiata dal campanile nuovamente eretto in stile basilicale in sostituzione dell'altro pericolante del secolo XVII, che a sua volta aveva preso il posto del pilastrello arcuato collocato sul tetto della chiesa con una piccola campana, la basilica " si presenta - uso le parole stesse dell'Arslan - a tre navate rette da colonne sormontate da rozzissimi capitelli, o addirittura da frammenti architettonici sostenenti ampie arcate, coperta tutta da tetto a cavalletti. L'abside centrale è preceduta da un presbiterio coperto da una volta a botte, e le due cappelle absidate laterali da una volta a crociera nervata. La cripta, dal modo come le volte tagliano l'arco delle bifore che vanno verso la chiesa, sembrerebbe posteriore (ma certo di poco) alle stesse.
Il battistero è, in pianta, un poligono ad otto lati, uno dei quali, più lungo degli altri, immette in una abside semicircolare. E' coperto da una volta a sezione circolare (32).
L'esterno delle due costruzioni ha carattere molto arcaico. Esso rivela un'analoga struttura di ciottoli a spinapesce e pietre rozzamente squadrate entro spessissimo letto di malta. I fianchi della basilica legano perfettamente con la facciata (restaurata) e con la parete absidale; ed è notevole che i fornici intorno all'abside della basilica e al battistero, ripetono appunto il ritmo notato nel battistero di Novara " (33).
Quando e da chi venne fatta erigere l'attuale basilica col suo battistero? Chi ne fu l'architetto?
Si naviga nell'incertezza.
Il Giulini ci fa sapere che " uno scrittore dei nostri arcivescovi, la cui opera da me si conserva manoscritta, narra che la Canonica di S. Pietro nel luogo di Agliate, capo di una delle nostre pievi, è stata fondata da Ansperto medesimo. Io non so a qual fondamento egli abbia appoggiato la sua asserzione; nondimeno, poiché quell'autore è antico già di tre secoli, non è da disprezzarsi tal notizia, in una cosa la quale per sé non patisce alcuna difficoltà " (34).
In base a questo scritto, che non trova conferma in nessun'altro cronista o documento, si è ritenuto da non pochi che l'arcivescovo Ansperto da Biassono durante il suo pontificato (869-881) facesse erigere non solo una canonica propriamente detta, ma ben anche un correlativo nuovo sacro edificio, così che i canonici potessero degnamente celebrare, e i fedeli comodamente parteciparvi.
E' un'asserzione che può avere del verosimile.
Infatti, se strettamente parlando, canonica significa abitazione dei canonici, in largo senso la troviamo pure usata nelle carte antiche a significare tutto il sacro complesso edilizio plebano compresa la chiesa.
D'altra parte l'ampia basilica d'Agliate non poteva essere opera dell'esigua popolazione locale, ma di un ricco e potente signore com'era appunto Ansperto, al quale la pieve d'Agliate non poteva essere sconosciuta, poiché a sud confinava con Biassono.
Il che potrebbe trovare un certo quale appoggio nel fatto che poco dopo, nel secolo seguente, come si è detto, si avrebbe avuta la presenza dei Confalonieri, della stirpe di Ansperto, investiti del Capitaneato della pieve d'Agliate, con un forte castello nel soprastante territorio di Costa, dando origine alla nobile stirpe dei Confalonieri di Agliate.











Cripta.
Il ravvisare nella basilica elementi di architettura romanica, non sarebbe tuttavia tale da rendere inverosimile la sopraddetta notizia del Giulini, sia perché si tratta di elementi non del tutto ignoti alle maestranze costruttrici di poco anteriori al secolo X, e sia perché possono essere stati introdotti, almeno in parte, successivamente in occasione di restauri o rifacimenti, come si può desumere da quanto scrive il Corbella (35).
Comunque possa essere avvenuto, il Cattaneo, il Porter, il Lasteyrie, lo Schaffran, il Thuemmler, ed altri, si attennero per l'erezione della basilica alla seconda metà inoltrata del secolo IX (36).
Altri pur non meno autorevoli studiosi (il Toesca, il Solmi, il Perogalli, ecc.) la pensarono opera del secolo X, e in questo caso forse dei Confalonieri allora Capitanei della pieve di Agliate; ed altri ancora quali il De Dartein, il Verzone, lo Zemp, lo Steimman-Brodbeck, e ultimamente l'Arslan, ritennero di poterla assegnare al secolo XI in quanto vi si riscontrano diversi elementi di schietta architettura romanica. Quest'ultima supposizione sarebbe attualmente, per lo più, la preferita dagli studiosi.
Senonché anche gli argomenti stilistici, come si è accennato, non sempre riescono sicuri. " Mancando dati storici, si ricorre volentieri ad argomenti stilistici, e lo stesso si vuol fare quando si ricerca l'età di un monumento. Ma spesso si incorre in un circolo vizioso, attribuendo ad una certa età e a un certo paese un monumento per la somiglianza con altri che furono a loro volta dotati o topograficamente situati soltanto in base a considerazioni stilistiche, è sempre da tener presente che in diversissimi luoghi e diversissime età si hanno spesso fenomeni artistici molto simili " ecc. (37).
All'Arslan, sembra " di poter ritenere che la chiesa di Agliate sia un prodotto provinciale - e sia pure alla fine, al più presto, del secolo X - a quella che poté essere allora la basilica ambrosiana " (38).
La stessa insigne basilica di S. Vincenzo in Prato a Milano, che ha non poche rassomiglianze con quella di Agliate, e già pur essa ritenuta del secolo IX, ora la si vorrebbe spostare al secolo XI.
Per l'Arslan "le due chiese di Agliate e di S. Vincenzo di Milano rappresenterebbero due distinti momenti di uno stesso secolo: la prima attua con mezzi meno raffinati una struttura arcaica nelle proporzioni, ma aggiornata ai tempi in molti particolari costruttivi; la seconda appare più progredita nel modulo generale, e continua a ripetere nelle grandi finestre paleocristiane della navata centrale, un ritmo più antico. E forse non si tratta qui tra le nostre chiese che furono erette nella diocesi milanese nell'XI secolo, che di due tra le tante svarianti di un linguaggio del quale ora riesce impossibile misurare l'intera portata; riflettente certo, in quel secolo, un ecclettismo che dovette precedere la comparsa del potente e coerente gusto dell'architettura romanica milanese. Tanto sembra difficile oggi, dati gli incostanti caratteri stilistici e tecnici, quanto è invece facile ravvisare i caratteri del maturo romanico " (39).
E' certamente difficile precisare quando veramente incomincia e quando finisce una forma d'arte.
Ad ogni modo la datazione della basilica d'Agliate, nelle diverse ipotesi degli studiosi, verrebbe ad oscillare tra la seconda metà inoltrata del secolo IX e il XI, e non avrebbe a che fare con precedenti costruzioni locali.
L'ultima inequivocabile parola non è ancor detta, né forse mai lo si potrà.

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Appena posto piede sul sagrato si ha davanti la facciata della chiesa, sobria e semplice nei suoi elementi basilicali.
La parte centrale, sopraelevata sulle altre due laterali, ha due finestre arcuate e più in alto una piccola apertura a forma di croce.
Delle tre porte frontali, quella di mezzo è adorna di un artistico portale nuovo scolpito su modulo di precedenti antichi resti di intrecciature curvilinee; tutte e tre con una moderna semilunetta a mosaico delle quali l'aquilonare con la figura di S. Pietro, la centrale con quella di Cristo, e la meridionale con S. Paolo.











Colonna miliare romana.

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Dal piano del sagrato si scende nella basilica per tre gradini (nel passato per più del doppio ossia prima che si sistemasse il piazzale antistante e si rialzasse il pavimento della chiesa), e lo sguardo è tosto attratto dalla così detta frammentarietà del sacro edificio.
Gli elementi delle colonne (plinti, fusti, capitelli) per la materia e le dimensioni hanno molto dell'eterogeneo. Donde provenga questo materiale di ricupero, usato per la fabbrica, non si conosce. Si può ragionevolmente supporre che parte sia stato raccolto sul luogo, e parte altrove.
A destra entrando, il capitello della prima colonna fa parte di un'ara sacrificale romana tagliata e capovolta, e lascia leggere le ultime parole di un'iscrizione:

Suis Omnibus
V.S.L.M.

La stessa colonna avrebbe per base un'altra ara romana, scoperta quando si fece lo sterro per il nuovo pavimento. Oggi non è più visibile, ma il Corbella ce ne ha conservato il disegno e l'epigrafe (40).
Similmente il capitello della quarta colonna, sempre a destra entrando, al dir del Biraghi, sarebbe il resto di un cippo funebre romano con i suoi cornicioni, o secondo altri si tratterebbe di un'ara romana guasta dallo scalpello che ne arrotondò gli spigoli. Il Biraghi vi avrebbe letto nel 1860 queste parole, ma delle quali oggi nulla si vede:

D.I.S.A. (crum)
SALINUS. MAS...

La medesima colonna sembra abbia per base la parte superiore di un'ara thuricrema, sulla quale abbruciavasi l'incenso alla divinità pagana.










Inscrizione della colonna miliare romana.

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A sinistra, la quinta colonna presso il presbiterio porta un capitello alquanto guasto, ma finemente lavorato del quale si ignora la provenienza.
Si scrisse che in origine servisse a decorare qualche tempio dedicato a Nettuno di cui reca gli emblemi, e cioè il tridente, i delfini, la conchiglia: il tutto inquadrato tra foglie di accanto.
Qualcuno ha pensato infatti che in Agliate sorgesse un tempio dedicato a Nettuno, al quale sarebbe poi subentrata l'attuale basilica. E' un pensamento per sé non del tutto inverosimile, sempreché il capitello non provenga d'altrove.
Benché Nettuno sia propriamente il dio del mare, tuttavia poteva essere anche stato venerato come il dio delle acque in generale (sorgenti, fiumi, laghi). Ma nel nostro caso si tratta di una congettura quanto mai incerta, poiché quel capitello potrebbe anche avere un significato cristiano.
Non di rado ad indicare G. Xsto veniva usato il delfino, comunemente tenuto come il pesce amico e salvatore dell'uomo, e nel cimitero di Callisto vi è un noto affresco che presenta un delfino attorcigliato ad un tridente.
Il tridente era un altro modo di rappresentare la croce in modo velato: infatti se al tridente togliamo le due asticelle laterali rimane la vera croce (41).
Di seguito, dalla quarta colonna la cui base pare l'avanzo di un'ara o di una cornice romana, si arriva alla seconda colonna - una milliaria romana - la quale, dal segno II che reca scolpito, si vuole segnasse il secondo miglio.
Il milliarium equivaleva a mille passi romani, ossia a m. 1478 e 70. Da dove?... Non è possibile saperlo perché non sappiamo se scoperta in luogo o altrove. Il Mommsen ha opinato che segnasse il secondo miglio della strada Milano Como, e qui trasportata e impiegata nella fabbrica. Ma potrebbe anche darsi che indicasse la distanza su qualche altra strada di una certa importanza. E' noto che oltre la Milano-Como, altre notevoli vie percorrevano il territorio dell'alto milanese nella seconda metà del secolo IV, e qualcuna di queste doveva probabilmente attraversare il ponte di Agliate. Si è perciò anche sospettato che potesse segnare il secondo miglio da Valle Guidino (42). La colonna reca tre iscrizioni cesaree: due riguardano Giuliano l'Apostata, e la terza il tiranno Magno Massimo e suo figlio Flavio Vittore: indizio che fu adoperata tre volte in diversi tempi e circostanze.
La prima, leggibile, in giusta visuale, dice:

PRO. SAL. D. N.
CLA. IVL. PER.
SEM. AVG.
II
(Pro salute domini nostri /
Claudi Iuliani perpetui /
Semper Augusti / II).

Delle altre due capovolte, la prima, ma ultima in rapporto al tempo:
D. N. MAG. MAXIMI
ET. FL. VICTOR
SEMPER AVG.
B.R.P.N.
(Dominus noster Magnus Maximus /
et Flavius Victor /
semper Augusti /
Bono Rei Republicae nati).

L'inferiore:
D. N. CL. IULIANO. PIO
AC FELICI. SEMPER
AVG. B. R. P. N.
II
(Domino nostro Claudio Iuliano, Pio /
ac felici, semper /
Augusto. Bono Rei Pubblicae nato / II).


Le due epigrafi di Giuliano, poiché recano il titolo di Augusto si devono porre tra il 361-63. La prima dice solo pro salute, è quindi un semplice augurio; la seconda lo chiama pio, e nato per il bene della cosa pubblica, cioè dell'impero.
La parola pio fu posta a sua lode in quanto restauratore della romana religione?... Parrebbe di sì, poiché nella Numidia venne reperta un'iscrizione nella quale Giuliano è esaltato quale Restauratore della Libertà e della Romana Religione, e un'altra in Oriente lo celebra Maestro di filosofia.
Le città dell'Occidente, esasperate dalle gravezze e angherie imposte da Costanzo, furono umanamente trattate da Giuliano, restituendo loro i dazi e i fondi (vectigalia civitatibus restituta cum fundis), o in altre parole i beni camerali, e sollevandole dall'aurum coronarium. Certamente anche per questo, oltre che pio, fu dichiarato sovrano nato per il bene dell'impero.
L'imperatore Giuliano, a parte la fisima di voler restaurare il culto pagano, impresa ormai impossibile, per cui vedeva di malocchio il cristianesimo e l'osteggiava, fu un principe non privo di buone qualità. In Occidente l'azione religiosa di Giuliano per il ristabilimento del paganesimo non si è fatta gran che sentire. Troppo breve fu il suo regno, e per di più costretto a seriamente pensare agli avvenimenti dell'Oriente (43).
L'epigrafe che si riferisce a Massimo e al figlio Vittorio è del 387-88.
L'imperatore Massimo, col quale ebbe a che fare il nostro S. Ambrogio, era generale delle legioni romane che presidiavano la Britannia, quando nel 383 si proclamò Augusto e passò nelle Gallie dove sconfisse e uccise l'imperatore Graziano.
Nel 387 invadeva l'Italia strappandola a Valentiniano il giovane. Nell'anno seguente l'imperatore
Teodosio lo vinse e lo fece sopprimere. Nel settembre di quell'anno cadeva pure ucciso nelle Gallie
Flavio Vittore. L'iscrizione li proclama con il solito encomio, nati per il bene della cosa pubblica.

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Dalle colonne l'occhio corre verso l'altare maggiore e vede un bell'ambone alla foggia antica dalla parte del Vangelo. E' moderno, e collocato durante i restauri. Dovrebbe rassomigliare all'originale.
Si legge infatti nella visita del cardinal Federico Borromeo del 12 luglio 1608 che in cornu Evangeli vi stava un tempo un ambone antico, eretto parte in pietra, parte in marmo, e parte in laterizi, ornato di un'aquila marmorea. Venne distrutto dal Sac. Andrea Isimbardi, parroco di Costa e vice parroco di Agliate al tempo di S. Carlo (44).
Al suo posto si collocò un semplice pulpito di legno di forma quadrata.
Conformi allo stile basilicale si affacciano gli altari, ma sono moderni.
I due minori laterali precedenti, di stile neoclassico, furono cambiati durante i restauri del 1893-95.
L'altar maggiore fu invece rifatto dal prevosto Leonardo Corti nel 1957, sacrificando il precedente neoclassico " tutto di finissimi marmi, scrive il Corbella, come brocadello di Spagna, alabastro di Busca, bel ghiaccio, bardiglio, Carrara, con fregi d'oro scolpiti da mano maestra, con tempietto di svelta architettura, due statue d'angeli adoranti, due putti, che sostengono la croce, di marmo statuario di Carrara, pregiatissimo lavoro attribuito al Somaini (45). Dev'essere costato una somma quest'altare, ed è l'amore degli Agliatesi, che non possono rassegnarsi all'idea di dovervi presto rinunziare quando sarà sostituito da altro con le quattro colonne e il suo bravo ciborio a stile basilicale, come quello di S. Pietro in Civate e di S. Ambrogio in Milano " (46)
Era infatti bellissimo, e lo scrivente lo ebbe ad ammirare più volte (47).
Tutte le finestre ad arcotondo sono strombate, tranne le due bifore interne prospicenti la cripta.

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La basilica ci pone davanti agli occhi antichi dipinti interessanti, non fosse altro per il contenuto iconografico, benché sciupati e corrosi.
Gli affreschi, che si vedono sopra i due archi presso l'ambone, rappresenterebbero, nello scomparto superiore, la creazione di Adamo e di Eva, o, secondo altri, il Cristo che conforta l'umanità raffigurata nell'uomo nudo; nello scomparto inferiore si potrebbero ravvisare l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività di N.S., l'Annuncio ai pastori (?), la Madonna col Bambino.
Di bell'effetto le fasce a meandri che separano gli scomparti: nella prima in alto, sopra le finestre, che corre tutta intorno alla navata centrale, si alternano elementi simbolici con immagini di santi; nella seconda, o di mezzo, altre figure simboliche, quali il pavone, l'arca di Noè, la brocca con l'ulivo, il pesce, la colomba.
Queste pitture che per gli ornati rassomiglierebbero a quelle della chiesa di Galliano presso Cantù, e perciò degli ultimi anni del secolo XI o dei primi del seguente, hanno purtroppo, a dir del Toesca, scarso valore per la storia dell'arte essendo state ritoccate da un pessimo restauratore (48).
Altri simboli cristiani floreali (l'alloro, il mirto, le spighe) ricorrono nella decorazione dell'arco del presbiterio su fondo ceruleo coi quattro emblemi degli evangelisti: l'aquila, l'angelo, il leone, il vitello. Al sommo dell'arco sta la figura di Cristo Redentore, e una mano aperta in alto pure simbolica.
Non è mancato chi ha voluto vedere nella basilica tutto costruito in base al simbolismo cristiano (nel numero e nella forma delle finestre, dei gradini, delle navate, dei lati delle colonne, degli archi, delle sagome, ecc.), sbizzarrendosi in varie ed impensate interpretazioni.
Il visitatore regionale Baldassare Cepolla (o Cipolla) nel 1597 ha lasciato scritto che la cappella dell'altare maggiore era stata da poco tempo dipinta; e dalla visita di Federico Borromeo nel 1608 veniamo a conoscere che quelle pitture rappresentavano Gesù Crocifisso, S. Ambrogio, la Madonna con in grembo Gesù deposto dalla Croce: il tutto su fondo ceruleo.
Dipinti di poi scrostati, per lasciarne emergere altri più antichi.
La parete meridionale del presbiterio ci ha conservato una logora figura della Madonna con il Bambino lattante.
Il fondo dell'abside ci mostra invece quella di Gesù che consegna le chiavi a S. Pietro con ai lati la Madonna con il Bambino e S. Giovanni Battista, mentre più in alto, nel centro, spicca la figura del Padre Eterno.
Sarebbero lavori del 1491 volendosi dar peso ad una data emersa allorché si scrostarono i muri per rimettere in vista i vecchi affreschi.

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Sotto la cappella dell'altare maggiore vi è la cripta.
Vi si discende per due scale situate nelle due cappelle in testa alle navi laterali. Una tenue luce vi penetra verso est da tre finestrelle a strombatura, e dalla parte opposta da due bifore aperte ai lati della gradinata, che dal piano della chiesa mette al presbiterio.
Nel centro, otto colonnette di pietra, i di cui capitelli vigorosamente scolpiti sostengono la volta a crociera con archi traversi (49). Qualche studioso trasse motivo dai capitelli per attribuire la cripta al secolo IX, dichiarandola contemporanea alla basilica. Ma se appositamente scolpiti per la cripta, oppure se provenienti d'altro luogo e qui reimpiegati, non è possibile accertare.
Vi sta un piccolo altare in muratura verso oriente, dedicato a S. Andrea apostolo, e situato tra le ultime due colonnette ma alquanto distaccato dalla parete (50). Rimosso per ordine di S. Carlo fu ben presto rimesso dalla Comunità di Agliate per la comodità di celebrarvi e di assistere ai sacri riti, specialmente durante la rigida stagione invernale.
Nel suo complesso strutturale la cripta parrebbe presso a poco del medesimo tempo della basilica, ma non è escluso che in seguito possa essere andata soggetta a dei ritocchi.

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E' noto che anticamente i nostri battisteri erano generalmente di forma ottagonale e avevano la vasca battesimale per lo più scavata nel pavimento, e tale si presentava pur quello esistente presso la cattedrale milanese di S. Tecla, nel quale nel 387 S. Ambrogio battezzò S. Agostino.
Il battistero di Agliate, benché non del secolo IV ma di secoli dopo, si è modellato sulla tradizionale forma diocesana, ed è tra i più antichi rimasti della nostra diocesi.
Sorge attiguo alla basilica, ma distaccato come di rito.
Nel passato vi si accedeva, prima che si erigesse l'attuale sacrestia, dalla chiesa attraverso una porta aperta nella navata meridionale.
Con molta probabilità è contemporaneo o quasi alla basilica, in quanto appare opera di una medesima maestranza, sia per lo stesso materiale impiegato e sia per lo stesso modo di costruire.
Non si distingue dalla chiesa che per la corona degli architetti esterni. Essendo la chiesa una plebana battesimale e cioè la parrocchiale di tutto il suo distretto, è ovvio che costruito il nuovo sacro edificio, si sia pensato per tempo anche al battistero.
Esso è privo di matronei o logge superiori, a differenza dei battisteri di Galliano e di Arsago forse meno antichi, e presenta la particolarità di essere nonagonale con un'absidiola semi circolare avente un piccolo altare dedicato a S. Giovanni Battista, il santo al quale ordinariamente si dedicavano i battisteri.
E' coperto da cupola, e all'esterno sopra le otto finestre antiche che si aprono all'ingiro, meno che a settentrione sopra la porta di fianco, vi è un'interessante corona di arcatine pensili costituite da piccole pietre ritagliate, e una serie di piccole nicchie a fornice.
Due porte immettono oggi nel battistero: la prima, che si deve ritenere la primitiva, aperta nel fronte; l'altra più piccola, ma più comoda per chi vien dalla sagrestia.

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Nel mezzo, in cavità e sprofondata per mezzo metro circa e con un metro e trenta centimetri di larghezza utile, sta la vasca battesimale in muratura senza alcun rivestimento interno, ma in origine probabilmente avente lastrine di marmo, come si può arguire dai resti dell'orlo esterno, ed anche i relativi gradini per scendervi e risalire.
Sul fondo coperto da un lastra di sasso, si nota una piccola apertura per lo scarico dell'acqua. Evidentemente vi si battezzavano persone giunte ad una certa età.
Presso una parete stà il moderno piccolo fonte battesimale in uso per la parrocchia.
Il visitatore regionale Antonio Seneca il 3 luglio 1584 osservò che " in medio sacelli locatum est Baptisterium lateritium forma rotunda, cum vase auricalchi intus incluso pro asservanda acqua baptismalis ", e aggiunse che " Sacramentum Baptismi administratur in predicto sacello incolis, ac in eo celebratur solennis baptismus in sabbato s.to ad usum totius plebis, ubi conveniunt processionaliter omnes fere parochiales Ecclesie intra fines plebis existentes, et habetur praedictum solenne baptismum a praeposito " (51).
Dai susseguenti atti di visita del Cardinal Federico Borromeo (1608) si ha che nel sabato santo il prevosto benediceva solennemente il fonte alla presenza di tutti i parroci della pieve, ai quali dopo la benedizione distribuiva gli olii e l'acqua battesimale (52).
Ultimi lampi di antiche cerimonie di quando il battistero plebano era l'unico per tutta la pieve.
Ma ormai già da tempo si battezzava in tutte le parrocchie.
Il formarsi nei singoli villaggi delle rettorie dal secolo XIV in poi fece sì che, data la facilità e la comodità, si generalizzasse l'uso di amministrare il battesimo ai neonati nelle stesse chiese locali in qualunque tempo e giorno coll'immergere leggermente l'occipite della testa del battezzando nell'acqua battesimale, raccolta in un piccolo vaso di marmo o di metallo. Divennero perciò inutili gli antichi battisteri plebani, con le loro grandi vasche, adatte per persone per lo meno già grandicelle, dovendosi scendere e risalire per alcuni gradini annessi alle vasche stesse (53).
Non poche pitture si vedono sulle pareti interne del battistero, ma quando precisamente e da chi affrescate, non ci è dato di sapere. Qualcuna non è priva di efficacia.
Sul fianco destro dell'abside, entrando, si incontra un S. Andrea e un S. Iacopo, e sulla parete meridionale si potrebbe riconoscere le figure di S. Ambrogio e di S. Onofrio, della Madonna col Bambino sulle ginocchia. Nella parete ad ovest spicca una Pietà o Cristo deposto dalla croce con intorno la Madonna e le pie donne.
Nella fascia che, internamente sopra le finestre corre intorno al cupolino, si vorrebbe intravedere, da un affresco tutto corroso, o una pesca miracolosa oppure il battesimo di Gesù sulle rive del Giordano. E, comunque, talmente sciupato che si tira ad indovinare.
Non mi risulta inoltre, come asserì taluno, che il battistero nei passati secoli sia stato usato talora come sagrestia. Oltre tutto sarebbe stato troppo mal comoda sotto tutti i rapporti.

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S. Carlo aveva imposto di togliere i piccoli altari del battistero e della cripta, e di sistemare secondo le nuove prescrizioni l'altar maggiore e gli altri due delle absidi laterali.
Volle tra l'altro, che l'altar maggiore fosse provvisto di tabernacolo, ciò che fu fatto collocandone uno di legno, dipinto e intarsiato con figure.
Nei secoli antecedenti il SS. Sacramento (quando si conservava) si teneva in un armadio o in un piccolo vano scavato nel muro di fianco all'altare. Sull'altare non ci stavano che i candelieri e il crocifisso. Si celebrava rivolti al popolo.
Ora avvenne che, demolendosi l'altare del battistero, si rinvenne, chiuso in un vaso di marmo, un artistico reliquiario d'argento o capsella con reliquie e con impresso il monogramma di Cristo alla foggia antica. E poiché in quello stesso anno un simile ritrovamento era avvenuto sotto l'altar maggiore della basilica di S. Nazaro in Milano, contenente reliquie dei santi apostoli portate a Milano da S. Simpliciano, si volle congetturare, che anche le reliquie chiuse nella capsella agliatese fossero dei santi apostoli (Pietro e Paolo) in base alle tre lettere iscritte nel monogramma, e furono collocate presso l'altar maggiore (54).
La capsella è oggi conservata nell'archivio parrocchiale.
Capselle simili, con reliquie di martiri, che si usavano per gli altari se ne scoprirono a Civate, Mariano Comense, Garbagnate Monastero, Brivio, Garlate. La loro datazione è variamente indicata: da qualche secolo prima del Mille si scende a qualche secolo dopo. Ma non è da escludere che qualcuna possa essere ben più antica (55).
Altre reliquie vennero alla luce in occasione di quella riforma degli altari ordinata da S. Carlo, tra le quali, si dice, quella insigne di S. Biagio.
Di quest'ultima scrive il Corbella " che con ogni probabilità, prima che venisse posta sotto il maggiore altare (donde fu levata da S. Carlo stesso), era in questa cripta, o sotto l'altare o in quell'alcova stessa, ove fu ricollocata in questi giorni " (56).
Dagli atti di visita del Sormani e del Cermenati, ossia prima che S. Carlo venisse personalmente in visita pastorale ad Agliate, la reliquia di S. Biagio parrebbe forse già collocata nella cappella stessa dedicata a S. Biagio.











Absidi della basilica e del battistero.



PARTE SECONDA LE VICENDE DELLA BASILICA ATTRAVERSO I SECOLI

CAPITOLO I

Agliate nel secolo XIII - La reliquia insigne di S. Biagio - Generale decadenza e scomparsa delle Pievi - I Vicariati foranei - Visite pastorali di S. Carlo e di Federico Borromeo e loro delegati - Soppressione del Capitolo collegiale.
Dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani si ha che nel secolo XIII la pieve di Agliate numerava, escluse le esenti, 37 chiese con 71 altari (57). Al tempo di S. Carlo comprendeva anche Paina con Brugazzo, che poi il santo arcivescovo riunì alla confinante pieve di Mariano. In Agliate oltre la plebana dedicata a S. Pietro apostolo (con gli altari minori di S. Agata e di S. Pietro martire), e quello di S. Andrea apostolo nella cripta presso la quale si celebrava altresì la festa di S. Romano, e un altro ancora dedicato a S. Biagio detto nella canonica, vi erano altre chiesuole dedicate una a S. Giovanni Battista (ossia il battistero), un’altra a S. Eustorgio (ora di S. Giuseppe alla Rovella fatta costruire sull’antica nel 1827-28 dalla contessa Verri, vedova Confalonieri, su disegno dell’architetto Giacomo Moraglia), e una terza a Santa Maria « in grepi ». Dove fosse quest’ultima località non saprei dire. Che possa essere l’attuale Beldosso? Comunque, di edifici sacri al Beldosso e alla Cascinetta non vi è accenno. Si noti che il termine generico di chiesa (ecclesia) è usato dal compilatore del Liber anche per le semplici cappellette od oratorietti aventi un altare. L’altare di S. Pietro martire ci richiama il nobile agliatese Stefano Confalonieri ch’ebbe mano nell’assassinio di S. Pietro da Verona. Che sia stato messo dai parenti quasi a riparazione del misfatto? E’ inoltre da osservare che il Liber ecc., accennando all’altare di S. Biagio vescovo e martire di Sebaste, non dice che allora ci fosse il suo corpo o gran parte di esso, mentre per altre chiese (Desio, Cantù, ecc.) ricorda la presenza di tali sacri depositi. Che dire? Probabilmente una delle due: o l’autore del Liber si è dimenticato o ha ritenuto non necessario farne parola, oppure, e forse meglio, quei santi resti oggi ivi raccolti, detti di S. Biagio, finirono ad Agliate in tempi posteriori al Liber e anteriori a S. Carlo, donati da persona a noi rimasta ignota. Nel castello di Agliate (in castro de aliate, alliate), ossia nel soprastante territorio di Costa Lambro, anticamente detto Costa o Castellanza d’Agliate, sono ricordate tre chiesuole: di S. Lorenzo, S. Martino, e Santa Maria, più un altare dedicato a S. Adriano. La chiesa di S. Martino ci richiama quella che al presente è la parrocchiale del luogo. Nel secolo XIII Costa, a quanto pare, continuava ad essere un tutt’uno con Agliate. Successivamente, con lo sparire della pieve originaria e del castello, diverrà una piccola comunità indipendente sia civilmente che religiosamente.

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Cause diverse, e fra queste lo spirito d’autonomia che durante le lotte dei Comuni Lombardi contro l’impero germanico era venuto diffondendosi anche nelle campagne, il susseguirsi dello scisma Occidentale, il formarsi delle Signorie, e forse più che tutto la Rinascimentale cultura umanistica paganeggiante la quale produsse un rilassamento nella fede e nei costumi, diedero origine e sviluppo ad una inevitabile evoluzione sociale, politica ed ecclesiastica. Avvenne tra l’altro nelle campagne, che mentre prevosti e canonici, investiti talora di più benefici, non si curavano gran che di tenere la residenza presso la chiesa plebana alla quale erano incardinati (de ordine), dall’altra l’aumentata popolazione rurale più non si sentiva di recarsi alla lontana plebana per le funzioni parrocchiali. Per necessità di cose, dal secolo XIV in poi, se non forse prima, ma poco a poco, e dove prima e dove dopo, a seconda dell’importanza dei villaggi, delle circostanze e dei mezzi disponibili, si prese a funzionare parrocchialmente, di fatto se non di diritto, presso la chiesa principale del villaggio stesso, dando origine alle rettorie. Così, ad esempio, il 29 novembre 1367 il sacerdote Andrea Ghiringhelli (de giringelis) è investito del beneficio della chiesa di S. Giacomo e Filippo in Giussano col titolo di « beneficialis et rector ». La comodità stessa fece sì che si introducesse e si affermasse via via, come si è detto, l’uso di amministrare il battesimo, il più necessario dei Sacramenti, non più a persona già in età, ma a tutti i neonati press’a poco come si fa al giorno d’oggi, lasciando in abbandono i lontani battisteri plebani e le loro grandi vasche battesimali. Lo Stato della Chiesa Milanese del 1466 segna espressamente nelle pievi la presenza di non poche parrocchie rurali, o per dir meglio di rettorie, poiché canonicamente erano ancora quasi un di mezzo tra la semplice cappella, e la vera completa parrocchia rurale quale risulterà dalla successiva Riforma Tridentina. Allorché S. Carlo fu eletto arcivescovo di Milano nel 1360, e vi fece residenza cinque anni dopo, la scomparsa delle pievi era già un fatto compiuto, favorito dal mal esempio che scendeva dall’alto, poiché da oltre una cinquantina d’anni i milanesi più non vedevano i loro arcivescovi, i quali si accontentavano di riscuotere le rendite, delegando ad altri il governo della diocesi. I singoli villaggi d’ogni pieve si erano trasformati definitivamente in rettorie fra di loro indipendenti nella cura d’anime, e più nulla ebbero a che fare, sotto questo riguardo, con l’antica chiesa matrice plebana. La parrocchia primitiva era finita, lasciando una sequela di disordini per il fatto che le rettorie si formarono confusamente per naturale evoluzione, senza una regola generale prestabilita, per cui S. Carlo dovette non poco faticare a sistemare in meglio la situazione col levare gli abusi, e talora sopprimere, riunire, trasferire benefici, collegiate; creare nuove parrocchie, nuovi vicanati, ecc. Ad Agliate erano persino andate in rovina i locali d’abitazione per il clero: prevosto e canonici dimoravano nei paesi della pieve o altrove (58).

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Sull’ossatura territoriale delle pievi vi subentrarono col Concilio di Trento, come si è detto, i Vicariati foranei, i quali furono e sono ben altra cosa. L’autorità plebana, in quanto parrocchiale, era fissa al luogo e difficilmente alterabile, così che continuava anche in sede vacante. La vicariale invece era personale (ad personam), ossia l’eletto non era e non è che un incaricato arcivescovile con l’obbligo di sorvegliare un dato numero di parrocchie. I vicariati furono pertanto, per loro stessa natura, facilmente rimaneggiabili a seconda delle necessità religiose locali o zonali come infatti avvenne da S. Carlo in poi. Nei primi anni della loro introduzione troviamo alle volte investito quale vicario, non il prevosto ma un parroco del vicariato stesso. Ad Agliate, per esempio, al tempo di S. Carlo, fu per un dato tempo vicario foraneo il parroco di Briosco. In seguito tutti i centri vicariali furono insigniti, se già non lo fossero, del titolo di prepositura o arcipretura, e chiamati prevosti o arcipreti i loro titolari. Si continuò tuttavia, per consuetudine, ad usare comunemente l’antico termine di pieve promiscuamente con quello di vicariato, forse anche perché l’amministrazione civile conservò per suo uso l’antica divisione territoriale pievana fin verso la fine del secolo XVIII (59).

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Nel 1338 era passato a miglior vita Ruggero de Gluxiano prevosto di Agliate. Gli successe il caratese Melchiorre Giacomo de Baziis, la di cui famiglia era in quel tempo tra le più distinte del borgo di Carate dove aveva fondato una cappella detta appunto « de Baziis ». La Notitia cleri mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem ci presenta per la canonica di Agliate questo accertamento d’estimo:
D. Prepositus dicte Canonice L.3-S. 7-D.2 Pbr. Johannes de Gluxiano L.1- S. 13- D. 7 D. Antonius de Gaitonibus (sic) L.1-S. 15- D. 7 D. Johannes de Vicomercatibus L.1-S. 13- D. 7 D. Enrichus Con fanonerius L.1-S. 8-D.O Christoforus de la Strata . L.1-S. 8-D.O Pbr. Antonius Con fanonerius L.O-S. 5-D.1 Christoforus de Gluxiano L.O-S. 5-D.7 Georgius Canda L.O-S. 5-D.7 Petrinus de Giochis . . L.O-S. 5-D.7 Antonius de Nava . . L.O-S. 5-D.7
In tutto dieci, tra sacerdoti e chierici di grado inferiore, con in più il prevosto del quale non si fa il nome. Segue l’elenco delle 22 cappelle estimate o chiese principali delle singole comunità della pieve. Il compilatore della sopracitata Notitia usa per tutte le chiese, senza far alcuna eccezione, il titolo di cappella, mentre sappiamo con certezza che già in quel secolo non mancavano nella pieve delle rettorie rurali (Giussano, Besana, Carate). Il termine tradizionale di cappella durò a lungo e fu talora usato nel significato di rettoria. Infatti nel Liber Seminarii Mediolanensis del 1564 così si esprime per Calò: « Cappella sive Rettoria de Caloe »... e per Giussano: « Rettoria sive Cappella de Santo Jacomo et Filippo de Gluxiano ». La lira imperiale si divideva in 20 soldi, e il soldo in 12 denari. Quanto potesse allora valere la moneta, in confronto della nostra odierna in continua svalutazione, non è facile precisare. Ad ogni modo la nostra canonica risulta sul finire del secolo XIV tra le meno provviste della diocesi, e ciò fu una delle cause che facilitarono il suo decadimento, pur tenendo calcolo del lento inarrestabile dissolversi della primitiva disciplina ecclesiastica pievana. Nel 1364, allorquando venne imposto da S. Carlo un tributo sui benefici ecclesiastici diocesani per l’erezione del Seminario, ad Agliate si aveva questa grave situazione: « Prepositura de Sancto Petro d’Aliate divixa in due parte: una de d.no Anibal Taliabò, l’altra de d. no Andrea de Clapis L.4-S. 6-D.O canonicato alias de d.no Benar (sic) Massalia L. O-S. 17- D. O»
L’Annibale Tagliabue, mentre godeva metà del reddito della prepositura di Agliate, era nello stesso tempo rettore della chiesa di S. Ambrogio in Carate. L’Andrea de Clapis era invece prevosto di Brebbia. Ricordo al lettore che il borgo di Carate era diviso in due rettorie; l’altra era quella di S. Simpliciano occupata da Ambrogio Scola.

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Da alcuni atti di elezione di canonici del secolo XVI — i più antichi che mi fu dato di rintracciare — si ha che i canonici, oltre gli scarsi redditi dei rispettivi benefici canonicali, partecipavano ai pochi proventi della massa o mensa capitolare, per cui nessuno risiedeva in Agliate, dove del resto, come si è già accennato, più non esisteva né la casa del prevosto né quella dei canonici, che dimoravano nei paesi circonvicini, e talora come rettori. I loro obblighi consistevano nel celebrare ognuno nella chiesa d’Agliate una Messa alla settimana, e di intervenire ogni anno (congregare et divina officia cantare) nelle solennità di Natale, Epifania, Pentecoste, dei santi Pietro e Paolo, e nella generale Commemorazione di tutti i defunti, e partecipare alla processione del terzo giorno delle litanie triduane (in altri documenti si dice del primo giorno). Chi non fosse stato presente « in celebrando et alia divina officia cantando, quod liceat alijs dominis canonicis qui non defecerint retinere tot ex redditibus dicte residentie ad compotum solidorum decem imp. pro quolibet vice, salvo quod causa impedimenti infirmitatis », la quale doveva essere certificata dal medico curante, o da qualche nobile del luogo ove abitava (istrumento 3 settembre 1334). Con particolare solennità si celebrava la festa patronale dei santi apostoli Pietro e Paolo; i canonici intervenivano capitolarmente ai primi e secondi vesperi, e similmente accompagnavano col canto la Messa capitolare. Il giorno seguente nello spazio dietro la chiesa si teneva la fiera o mercato « mercatus et emporia ». Quello spazio era ombreggiato da vecchie piante di noce, e vi si accedeva dalla parte aquilonare della chiesa. Si vociferava che fosse luogo pubblico. Fra i canonici sceglievasi il puntatore e il tesoriere. Il prevosto nella distribuzione dei proventi godeva di una doppia porzione. L’obbligo della cura d’anime spettava al prevosto, il quale al tempo di S. Carlo, ed anche prima, abitava in Carate, facendosi per lo più sostituire da qualche Curato vicino, o da altri, dando loro un compenso. Il prevosto nelle pubbliche funzioni usava il rocchetto, la cappa e la ferula. I canonici non portavano altra insegna che la cotta. La chiesa d’Agliate non vantava privilegi speciali come, ad esempio, quella di Pontirolo.

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Lo sfasciamento della nostra colleggiata, e la trascuratezza in cui venne a trovarsi la basilica, si rileva ben chiaro dalle visite del Sormani prevosto di Asso (3 ottobre 1366) e del Cermenati prevosto di Desio (26 ottobre 1369) (60). Nella chiesa a tre navi si discendeva dal sagrato o antico cimitero (61) per sette gradini, o forse otto come si dice in atti successivi da altri visitatori. Nella facciata si aprivano due finestre. Non aveva pavimento. La navata centrale, con sei finestre per parte, era coperta di sole tegole, mentre le due navi minori risultavano scoperchiate e, cosa lacrimevole scrive il Cermenati, vi cresceva l’erba. Nella chiesa non si conservava il SS. Sacramento, né vi era il tabernacolo, e nemmeno una pisside per portare il viatico agli infermi. All’altar maggiore si ascendeva dal piano della chiesa per sette gradini di sasso: dalla parte del Vangelo stava un antico ambone di pietra. Lo spazio dietro l’altare serviva di sagrestia dove si conservavano i pochi e consunti paramenti (62). Annota il Cermenati che sull’altare spiccava una piccola icona lapidea con le figure della beata Vergine e dei santi apostoli Pietro e Paolo. In testa alla navata meridionale, vi era l’altare in onore di S. Agata, e nell’altra aquilonare pure un’altare dedicato a S. Biagio presso il quale si diceva che ci fosse il corpo del santo (63). Sotto la cappella dell’altare maggiore stava la cripta, la cui volta era sostenuta da otto colonne con un piccolo altare a S. Andrea apostolo. Al tempo del Sormani vi si celebrava la Messa durante le stagioni invernali, essendo la chiesa freddissima da gelare talvolta nel calice il Sangue di Cristo, dicono gli atti di visita. Poco discosto dal sacro edificio sorgeva il battistero a cupola e con vecchi dipinti alle pareti, e con nel mezzo l’antico fonte battesimale che, al dir del Cermenati, in origine era assai bello « quod tunc temporis erat perpulchrum ». A quanto pare la chiesa non ebbe fin dalle origini un campanile vero e proprio, ma il solito pilastrello arcuato con una campanella sopra il fronte della chiesa. Comunque, né il Ferragatta, né il Sormani, né il Cermenati e tutti i successivi visitatori fino a Federico Borromeo fanno cenno di una torre campanaria, come nulla sappiamo da altre fonti. In una carta senza data, ma del tempo, si nota che in Quaresima la chiesa era molto frequentata dagli abitanti dei contorni, che vi convenivano per particolari devozioni (64). Dal che possiamo arguire che le SS. Quarantore di Agliate, che a tutt’oggi si continua a praticare nelle solennità pasquali con gran concorso di gente, si innestano su antiche devozioni agliatesi. Il Sormani nella sua relazione suggeriva, come miglior partito, di trasferire il centro vicariale nel vicino borgo di Carate, non lasciando ad Agliate che un semplice parroco, tanto più che la popolazione si aggirava sulle cento anime, suddivise in dodici famiglie (65). E poiché i beni residenziali erano stati nel 1348 (rogito 24 ottobre) divisi tra il prevosto Annibale Tagliabue ed i canonici (66), raccomandò che si avesse a riunirli di nuovo, distribuendo il reddito a coloro che sarebbero intervenuti alle funzioni capitolari. Per togliere il notevole dislivello della discesa dal sagrato nella chiesa, suggerì che si avesse ad elevare alquanto il pavimento della medesima colmandolo di terra, e che si avesse poi a chiudere con un muro, elevato fra le colonne, le due navi laterali il cui spazio si sarebbe usato come cimitero. Praticamente la chiesa sarebbe stata così ridotta ad una sola nave; quella di mezzo. Per fortuna non se ne fece niente. S. Carlo Borromeo, con ordini in data 20 ottobre 1368, volle che prevosto e canonici, per turno, venissero a celebrare nella chiesa di Agliate una Messa alla settimana, mentre le altre funzioni capitolari si continuassero nella chiesa di S. Ambrogio in Carate, e che i beni residenziali divisi ritornassero a comporre la massa capitolare. Riguardo al definitivo trasferimento del centro plebano e della sistemazione del corpo di S. Biagio, avrebbe deciso dopo la sua visita pastorale (si veda in appendice doc.to II).

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Giunse infatti S. Carlo il sabato 16 agosto 1378 all’ora 24a, ossia sul finire del giorno (67). Smontò all’oratorio di S. Rocco di Carate ricevuto da tutto il clero della pieve, dalle confraternite, dal popolo di Carate e di Agliate; indossò la cappa pontificale, baciò la croce, e quindi sotto il baldacchino, cavalcando una mula, si avviò processionalmente alla chiesa prepositurale. Quivi giunto diede la benedizione solenne e pubblicò l’indulgenza di cento giorni, ed essendo già l’ora prima di notte, e cioè ormai sera se ne ritornò a Carate nella casa del prevosto. Il giorno seguente (domenica) fu per tempo di nuovo ad Agliate: vi celebrò la Messa, amministrò la Cresima e ultimò la visita, non dimenticando l’oratorio del Beldosso e l’altro di S. Eustorgio alla Rovella. E poiché quest’ultimo era stato ridotto dai Confalonieri proprietari ad uso privato, togliendo l’accesso al pubblico, volle che fosse rimesso nelle originarie condizioni, e non più fatto ripostiglio di cereali od altro da parte dei coloni (68). Di un oratorio alla Cassinetta non vi è parola. L’attuale dedicato a S. Alessandro fu probabilmente eretto più tardi. La basilica, a tre navi, è detta ampla et forma decora in omnibus similis structurae Ecclesiae S. Vincenti in Prato Mediolani (di ampia e bella forma in tutto simile alla chiesa di S. Vincenzo in Prato di Milano). Dal sagrato si discendeva al piano della chiesa dalla sola porta centrale, essendo state otturate da pochi anni le altre due laterali. Sono numerati tre altari: il maggiore, quello di S. Agata, e l’altro di S. Biagio. Mancava la sagrestia, il campanile, la casa d’abitazione per il prevosto, ecc. La situazione continuava a rimanere press’a poco eguale a quella che anni prima avevano trovato il Sormani e il Cermenati. D’altra parte cosa poteva fare una popolazione di circa cento anime se non ci mettevano una mano i signori del luogo? E poiché i nobili Pietro Tonso del Beldosso e Guido Cusani della Cassinetta si erano esibiti, specialmente il Cusani, di eseguire le riparazioni necessarie alla chiesa, costruire la sagrestia, cintare il cimitero o sagrato, costruire la casa parrocchiale, ed a provvedere alle altre cose necessarie, il santo arcivescovo volle, per maggiore sicurezza (si vede che non si fidava troppo delle parole), che di tutto questo fosse steso regolare istrumento. S. Carlo aveva ancora pensato di riunire la Costa ad Agliate e formare una sola parrocchia, come lo era già anticamente prima dello sfasciamento della pieve. Ciò non ebbe effetto, a quanto sembra, per la lungaggine nel far costruire ad Agliate la nuova casa d’abitazione per il prevosto. Riguardo al trasferimento della collegiata a Carate nulla di nuovo nei decreti emanati dopo la sua visita personale. Continuò ad aver vigore quanto aveva precedentemente stabilito. Volle però che solamente i presenti alle officiature, sia il prevosto che i canonici, avessero parte alle quotidiane distribuzioni residenziali, e che prevosto e canonici fossero ben istruiti ed abilitati nel canto fermo entro due mesi con relativo esame (69).

Capitello romano col tridente e i delfini.

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Pochi mesi prima della morte di S. Carlo, e cioè il 5 luglio 1584, Agliate accolse il visitatore regionale Antonio Seneca. Costui dovette constatare il nulla di fatto di quanto si erano obbligati i due sopracitati di Agliate; chè anzi in questo frattempo era stato distrutto anche il vecchio ambone senza costruirvi altro pulpito. E siccome mancava ancora la sagrestia, suggeri di di sistemarla nel mezzo della nave meridionale, ma anche questa volta nulla si fece e fu un bene (70). Gli Agliatesi, nobili e popolo, non corrisposero con quella premura e sacrificio che comportava l’esecucuzione degli ordini S. Carlo. Si ha quasi l’impressione che praticassero quasi dell’ostruzionismo onde intralciare il trasferimento della colleggiata. A così pensare induce anche il fatto che quei di Agliate, nel timore di rimanere privi di assistenza religiosa in luogo, avevano in merito inoltrata una supplica (71). S. Carlo passò a miglior vita il 3 novembre 1584 senza che fosse definitivamente sistemata la collegiata a Carate. D’altra parte i Caratesi non intendevano sobbarcarsi a sacrifici di sorta. Dopo l’intermezzo di Gaspare Visconti, si ebbe il lungo episcopato del card. Federico Borromeo (dal 1595 al 1631), il quale visitò la pieve nel luglio 1608, e ancora nel 1619 ma fermandosi in quest’ultima nei luoghi principali: Agliate, Carate, Besana, Giussano: emanò quindi i relativi decreti (72). Mandò in sua vece altri pro visitatori: Baldassare Cepolla (Cipolla?) nel 1597; Gio. Paolo Clerici nel 1604; Cesare Pezzani nel 1618 (73). Dal Cipolla sappiamo che i morti si seppellivano in chiesa, che si era costruito un pulpito di legno, e finalmente edificata la casa parrocchiale, ma a spese della comunità, con due locali inferiori e due superiori, portico, stalla, e soprastante fienile. Bartolomeo Riboldi, avendo liberamente rinunciato alla prepositura di Agliate, ebbe a successore il 24 aprile 1599 Gio. Pietro Fumagalli nativo di Brongio pieve di Oggiono, dopo averne ottenuto il possesso con lettere apostoliche del 9 gennaio 1598. Prese dimora nella nuova casa prepositurale. Nella cripta si era ripreso a celebrare, specialmente d’inverno, essendovi stato rimesso l’altare dopo la morte di S. Carlo. Dal Clerici si ha che vi si celebrava la festa dei Re Magi, e successivamente dal Pezzani che riparazioni e adattamenti si eseguirono nella basilica, dopo la visita di Federico Borromeo del 1608. Tra l’altro si apersero nuove finestre nella facciata, si ripararono e si imbiancarono le pareti, si eresse una torre campanaria presso la porta meridionale. Gli atti di visita del card. Federico Borromeo del 1608 ci dicono che la collegiata si era ridotta al prevosto (il Fumagalli, che in quell’anno si trovava nelle carceri arcivescovili (74) e a due canonici di sei che erano al tempo di S. Carlo. Sotto il falso pretesto che fossero benefici semplici e non residenziali, uno era stato unito al beneficio coadiutoriale di Arona dall’Albergato Vicario Generale del card. Federico, e altri tre furono impetrati dalla Santa Sede da Alessandro Confalonieri prevosto della collegiata di S. Babila in Milano. Di trasferire la collegiata a Carate più non se ne parla, tra l’altro perché, come si è osservato, quei di Carate ricusavano di contribuire alle spese necessarie (75). Gli Agliatesi d’altra parte, a quanto pare, insistevano perché fossero richiamati i quattro canonicati abusivamente alienati, e che fossero quindi canonicamente soppressi canonicati e mensa, riunendo il tutto (beni e diritti) alla prepositura, così da costituire un beneficio sufficiente al sostentamento di un prevosto che fosse un sacerdote idoneo alla cura d’anime. Il card. Federico, col passare del tempo, vista ormai l’impossibilità di far sussistere né in Agliate né in Carate la collegiata, giacché il prevosto non aveva che sole lire 150 imperiali di beneficio prebendale, formato da un affitto livellario sui terreni della cascina Boffalora di Rancate, e che i beni della mensa capitolare erano formati di 250 pertiche di terreni dispersi in diversi paesi della pieve, oltre alcuni livelli che fruttavano una trentina di lire, ossia in tutto lire imperiali 800 annue, così che né prevosto né canonici potevano decorosamente vivere facendo residenza. E poiché il prevosto Fumagalli aveva già ottenuto dall’Ill.mo Domenico Spinola Auditore della Camera Apostolica, con rescritti del 14 maggio 1614 e del 31 marzo 1618 di poter egli solo godere i frutti della mensa capitolare, suggerì agli abitanti, com’era del resto nei loro desideri, di fare istanza presso la Santa Sede, poiché egli non lo poteva fare di sua autorità, onde ottenere che, canonicamente soppresso il capitolo plebano, i proventi della mensa capitolare passassero definitivamente alla prepositura (76). Ciò che infatti avvenne, non rimanendo in Agliate che un prevosto coll’obbligo di risiedervi e di attendere personalmente alla cura d’anime. Continuò tuttavia ad essere considerato il Vicario foraneo del territorio dell’antica pieve. Queste vecchie collegiate rurali, data la nuova organizzazione parrocchiale post-tridentina, non avevano più ragione di esistere. In certi luoghi erano più di danno che di vantaggio spirituale. Una nuova collegiata, ma che niente avrà a che fare con quella soppressa di Agliate, sorgerà in Carate nella seconda metà del secolo seguente.

Prospetto della basilca col nuovo campanile e la canonica, dopo i restauri.


CAPITOLO II
Visita pastorale a Carate del card. Pozzobonelli - Erezione in Carate di una locale prepositura collegiata soppressa dalla Repubblica Cisalpina - Ricostruzione della chiesa prepositurale di S.Ambrogio e S. Simpliciano.

La domenica di Pentecoste del 3 giugno 1759 arrivava in visita pastorale l’arcivescovo card. Pozzobonelli solennemente ricevuto dai Caratesi sotto un magnifico arco trionfale, e, ossequiato dal clero, dai nobili e dal popolo, si avviò alla chiesa di S. Ambrogio sotto un baldacchino, le cui aste erano sorrette dai più nobili del paese, tra suoni di musica, di campane, e sparo di mortaretti. Il prelato rimase bene impressionato. Del pensamento di erigere in Carate una prepositura collegiata, che già frullava nella mente di qualche dirigente del luogo, se ne fece probabilmente parola al cardinale, il quale trovandosi sul posto e quindi in grado di poter ben considerare la cosa, non dev’essersi dimostrato contrario. Per l’erezione di una collegiata si richiedevano particolari condizioni, e cioè : «un luogo degno di nota; numeroso popolo e clero; una chiesa decorosa e capace; abbondanza, decenza e preziosità di sacre suppellettili; congrua dote per le prebende canonicali; il desiderio della città e incremento del divin culto; benigna approvazione regia ». Carate poteva ben ospitare decorosamente una prepositura collegiata (77). Era il paese più importante e popolato della pieve; contava 1200 abitanti tutti brava gente (bene morati omnes), con 11 sacerdoti, 10 edifici sacri tra chiese e oratorii, 6 tra benefici e cappellanie, e 33 legati di Messe. Davano poi religiosamente fama al paese due santi personaggi caratesi: il beato Pietro Zappelli, vissuto probabilmente tra il secolo XIII e il XIV, che fece erigere in Carate un ospedale per i poveri e che dotò coi suoi beni situati parte in territorio di Carate e parte in quello di Seregno (a San Salvatore); ed il venerabile Leone, che fu generale della Congregazione di S. Salvatore in Laterano, morto in odore di santità presso Lucca nel 1401. Il corpo del beato Zappelli, che taluno volle nobile e diacono, era stato conservato in un’urna nella chiesa di S. Ambrogio e venerato come santo: un santo sul tipo di S. Gerardo tintore di Monza, e cioè dichiarati tali a voce di popolo. Del Zappelli nulla di preciso sappiamo della sua nascita, della sua vita e della sua morte: mi risulta soltanto che se ne faceva la commemorazione al 18 maggio come si legge in alcuni breviari e messali ambrosiani anteriori a S. Carlo. Questi fece togliere l’urna e riporre in luogo rimasto sconosciuto. Oggi è ricordato in una via del paese a lui dedicata. Dell’ospedale da lui fondato il più antico accenno che finora si conosca è del 1398: lo troviamo tassato in lire 13, soldi 4 e denari 8. Nel 1458 fu unito all’Ospedale Maggiore di Milano, il quale ebbe poi sempre parte nell’amministrazione di quell’Opera Pia. Il borgo di Carate poteva inoltre vantare una delle più antiche prepositure degli Umiliati. Era dedicata alla Purificazione di Maria, e durò sino alla soppressione dell’Ordine fatta da S. Pio V, su istanza di S. Carlo, con bolla del 7 febbraio 1571, e da allora ridotta in commenda a disposizione della Sede Pontificia. Possedeva 920 pertiche e 22 tavole di terreni. L’Ill.mo Mons. Francesco Cioia, ultimo commendatano residente a Roma, ne traeva un’annua rendita di lire imperiali 3550. Fu soppressa nel 1798.

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Ben studiato e preparato il piano, nel 1762 i Caratesi iniziarono le pratiche religiose e civili. Per la formazione delle prebende canonicali, oltre al rimaneggiamento dei benefici locali disponibili, vi si aggiunsero due canonicati di fondazione privata, uno di Don Giuseppe Bernasconi ex parroco di Masnago, e l’altro dei conti Confalonieri con in più due cappellanie corali. Nello stesso tempo si pensò agli urgenti e necessari lavori di adattamento della chiesa, specialmente riguardo al coro. I conti Confalonieri, che in quegli anni primeggiavano in Carate, ebbero gran parte in questa faccenda (78). I Caratesi, signori e popolo, questa volta si dimostrarono favorevoli, tanto più che tutto veniva fatto senza alcun onere o prestazione da parte del Comune. Il 19 marzo 1763 i capi-famiglia si radunarono in assemblea o convocato generale sulla pubblica piazza per votare l’assenso all’erezione della collegiata in modo da conseguire in seguito il beneplacito regio. Intervennero pure i tre sostituti dei deputati dell’estimo coll’assistenza del regio cancelliere delegato. Il risultato della votazione, debitamente legalizzato, fu presentato e approvato dal Senato di Milano allo scopo di facilitare l’approvazione del potere centrale di Vienna. L’8 agosto 1765 morì a 88 anni di età D. Antonio Maria Colciago parroco di S. Ambrogio, il che rese più facile lo svolgimento delle pratiche burocratiche. Dal Vaticano il 3 giugno dell’anno seguente arrivò il consenso con bolla pontificia di Clemente XIII. Soppresse le due antiche parrocchie di S. Ambrogio e di S. Simpliciano (di quest’ultima il parroco Riva aveva preventivamente date le dimissioni), se ne formò una sola sotto il titolo dei sopraddetti santi col grado di prepositura collegiata, togliendo in tal modo il grave inconveniente di due parroci funzionanti parrocchialmente nella medesima chiesa di S. Ambrogio, non di rado motivo di contrasti. Il 29 giugno 1767, un imperiale dispaccio da Vienna concedeva il sospirato beneplacito alla bolla papale. Finalmente, dopo cinque anni di laboriose pratiche, il 14 ottobre di quello stesso anno (1767), previo assenso arcivescovile, venne eretta canonicamente la collegiata con rogito di Carlo Rusca, notaio arcivescovile, e incominciò a regolarmente funzionare. Il primo prevosto prefetto del Capitolo (il quale doveva essere un laureato in Diritto oppure maestro di Teologia o quanto meno Licenziato), fu Giuseppe Riva, il già parroco di S. Simpliciano, e i primi canonici: Battista Casali, teologo, ma esonerato dall’obbligo di leggere o spiegare la Sacra Scrittura; Giacomo Colciago; Giuseppe Porro; Carlo Basilio Gorio; nobile Bernardo Confalonieri; Giuseppe Bernasconi; più due cappellani corali di fondazione Confalonieri. L’obbligo della cura d’anime rimaneva presso il Capitolo. Al prevosto spettava, come divisa, la cappa magna violacea con pelle di ermellino sopra il rocchetto, e la ferula: ai canonici l’almuzia. Lo Statuto Capitolare venne approvato dall’arcivescovo il 17 agoosto 1774. Senonché il 10 luglio 1798, ancora viventi alcuni dei primi canonici capitolari, la collegiata fu travolta nelle soppressioni ordinate dai rivoluzionari della Cisalpina. I suoi beni furono sei giorni dopo incamerati. Si poterono salvare a stento i due benefici di S. Ambrogio e di S. Simpliciano, in quanto originariamente avevano annesso la cura d’anime. La collegiata scese a semplice parrocchia prepositurale con un coadiutore titolare chiamato teologo per consuetudine. La vecchia e cadente ex parrocchiale di S. Simpliciano, che sorgeva all’estremità del borgo verso Albiate, finì coll’essere completamente atterrata, rimanendo unica chiesa parrocchiale quella di S. Ambrogio, ricostruita più ampia in stile neoclassico su disegno dell’architetto Taroni, e alla quale, come si è detto, era stato aggiunto anche il titolo di S. Simpliciano. La facciata venne rifatta molti anni dopo (1880) per munificenza della signora nobile Isabella in Buttafava; e la chiesa nel suo interno ornata di stucchi e di affreschi nel 1900 dal Beghè. Dell’antica chiesa di S. Ambrogio, di architettura romanica a tre navi e divisa da quattro colonne per lato, non rimase che la robusta e interessante torre campanaria, alla quale nel 1767 era stata tolta la ruinosa cupola, in occasione del collocamento di un nuovo concerto di cinque campane tenacemente voluto dalla popolazione in sostituzione delle tre precedenti; concerto aumentato nel 1939 ad otto campane dal prevosto Mons. Luigi Crippa. Ultimamente si è tolto il neoclassico altare maggiore, che poteva essere conservato in posto, in quanto conforme allo stile della chiesa, pur sistemandone un altro nel presbiterio secondo le riforme volute dal Concilio Vaticano II. Chiusa questa parentesi, che il lettore mi vorrà perdonare, ritorniamo alla nostra basilica d’Agliate.


CAPITOLO III
Gravi danni alla basilica sotto il prevosto Curioni (1724-1759) - Il card. Gaisbruck distrugge la pieve o vicariato foraneo d’Agliate - Il card. Ferrari lo ripristina in parte - I moderni restauri del sacro edificio e del battistero.

Col secolo XVIII la basilica andò soggetta a gravi modifiche, specialmente con Pietro Francesco Curioni prevosto d’Agliate dal 1724 al 1739 (79); modifiche che negli atti di visita del card. Pozzobonelli del maggio 1739 sono dette restauri insigni (!), ma che in realtà altro non furono che dei guasti, perché compiute non secondo lo stile architettonico della chiesa, ma seguendo il barocchismo allora dominante. Sappiamo infatti che nel 1731 il pulpito di legno del secolo XVI venne sostituito con un ambone barocco di pietra arenaria o molera, e che nel 1741 vi si eresse tra la basilica ed il battistero la nuova sagrestia (l’attuale), comoda per il servizio ma fuori posto, con in essa un altare dedicato ai SS. Cosma e Damiano (80) lasciando in tal modo libera l’antica cappella di S. Agata che fu ripristinata e dedicata alla Madonna. Inoltre, al dire del Corbella, in quel tempo per conferire internamente alla chiesa la forma di Croce, si apersero due grandi archi nelle pareti laterali della navata centrale col levare le due colonne vicine al presbitero, danneggiando in parte le pitture della parete aquilonare; il pavimento venne rifattto e rialzato di circa mezzo metro seppellendo le basi delle colonne; si soffittarono le due navi laterali e si rifece quello della navata centrale, e la basilica fu coperta con un unico tetto a due enormi spioventi; si aprirono altre discordanti finestre nella facciata e nei fianchi, e vennero otturate le due bifore, guardanti nella cripta, coll’addossarvi una gradinata per tutta la lunghezza della barocca balaustrata di marmo. Queste riforme, se non proprio tutte eseguite in quegli anni, poiché di qualcuna se ne parla già in visite pastorali precedenti (come ad esempio di aprire nuove finestre, rialzare il pavimento, soffittare le navate), è tuttavia più che verosimile che la maggior parte di esse siano avvenute durante la parocchialità del Curioni. Le innovazioni si poterono eseguire con l’aiuto di benefiche persone, e di questue in paesi circonvicini come da concessione fatta nel 1730 dal card. Odescalchi. La parrocchia d’Agliate, che allora contava 172 abitanti, poteva dare ben poco per le relative spese, se ancora nel 1783 non aveva che un annuo reddito di lire 369 (ricavato dalle questue, elemosine, e gratuita filatura del lino), che si consumava nell’ordinario mantenimento delle suppellettili, dell’olio, della cera, e di eventuali piccole riparazioni della chiesa. Similmente il prevosto non aveva di che scialare per quello che gli forniva la prebenda. Nel 1793 Pietro Cuzzi, parroco di Besana, delegato generale della regia amministrazione provinciale del Fondo di Religione, in occasione dell’entrata in Agliate del nuovo prevosto Fedele Pirovano, già parroco di Pozzolo pieve di Gorgonzola, il quale succedeva al prevosto Matteo Borrani passato al beneficio teologale di Treviglio il 24 luglio, ci ha lasciato questo prospetto:
ATTIVO: — Fitti di case, beni e frutti di parte padronale .L. 1880. 1.2 — Livelli attivi L. 221.15.0 Totale attivo L. 2101.16.2 PASSIVO: — Carichi regi L. 180. 4.6 — Decime censi pass L. 4.10.0 — Spese di campagna e riparazioni L. 29. 0.0 L. 213.14.6 Rimane l’avanzo in L. 1888. 1.8

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Un colpo mortale ebbe a soffrire il vicariato di Agliate coll’arcivescovo card. Gaisruck nel 1838. Se S. Carlo e Federico Borromeo avevano pensato di sistemare il centro plebano vicariale coll’annesso Capitolo nel vicino borgo di Carate, ma senza poi tradurre in pratica il loro divisamento, il Gaisruck invece con decreto del 23 aprile divise sen’altro, « auctoritate ordinaria », in due parti il vicariato, attribuendone una metà alla parrocchia di Besana, elevandola per la circostanza in prepositura (81) e l’altra alla prepositurale di Carate, non lasciando ad Agliate che il semplice titolo di prevosto locale. Distruzione, a quanto pare, non in tutto regolarmente compiuta. Nel 1901 l’arciv. card. Ferrari, in base all’esposto del prevosto Don Luigi Colombo, e tutto ben considerato col canonista di Curia Mons. Nasoni, ritenne giusto ed opportuno, pur lasciando sussistere i vicariati foranei di Besana e di Carate, di richiamare sotto l’antica matrice quattro delle sue parrocchie (due del vicanato di Besana e due del vicariato di Carate), e conferendo al prevosto il titolo di Vicario Foraneo. In questa faccenda ebbe indirettamente parte chi stende queste brevi note, col raccogliere elementi utili al prevosto per sostenere le ragioni della sua chiesa presso l’arcivescovo.

Interno del battistero.

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Al secolo XIX era riservato il restauro della basilica nei suoi elementi il più approssimativamente originali. Nel 1874 una Commissione venne mandata dalla Consulta Archeologica della Provincia di Milano affinché riferisse su lo stato della basilica e del battistero; lavoro svolto dal prof. Giuseppe Mongeri e dall’architetto Giovanni Brocca, che ne stesero ampia e accurata relazione in data 18 marzo di quell’anno. Le proposte dei relatori importavano un costoso lavoro, ragione per cui si attese ancora un ventennio prima di accingersi all’opera, benché nel 1875 la basilica e il battistero fossero dichiarati monumenti nazionali, limitandosi in quel periodo di tempo alle più urgenti riparazioni sulla parte esterna delle absidi, e all’isolamento del battistero. Finalmente nel 1893-95 il prevosto cav. Corbella, tenace assertore del restauro (82) coll’aiuto di offerte pubbliche e private, ottenne dall’Ufficio Regionale per la conservazione dei Monumenti Nazionali della Lombardia che si procedesse ad un generale restauro che fu affidato all’architetto Luca Beltrami coadiuvato dai colleghi architetti Gaetano Moretti e Luigi Perrone; restauro generale che ora infatti si presenta nell’elegante semplicità delle linee originali (83). Per mancanza di mezzi rimase sospeso il restauro del battistero. A quest’ultimo pensò il prevosto Don Luigi Primo Colombo (84). Nel marzo del 1907, previa approvazione dell’arcivescovo card. Ferrari, redasse e diffuse una circolare « agli amatori dell’arte italiana e cristiana », sollecitandone i mezzi necessari. Sotto la responsabilità del sopraddetto Ufficio Regionale di Milano si pose di poi mano al suo restauro. Al’esterno, per tenere asciutti i muri e salvare così gli affreschi, si scavò un fossato intorno al suo perimetro base, largo e profondo circa un metro, con intorno una ringhiera di ferro battuto; si otturarono le crepe e i buchi nei muri; si riparò il tetto; si sistemarono le porte e le finestre. All’interno si rimisero in luce gli antichi affreschi, e vi si ripose l’altarino nell’absidiola. Successivamente nel 1965, con l’attuale prevosto Don Luigi Panzeri, si livellò parte del terreno presso il battistero, togliendo ringhiera e fossato, per aprirvi un campo sportivo di pallacanestro pur necessario per i ragazzi dell’oratorio. Soluzione per altro forse non in tutto favorevole all’incolumità del battistero, che in quei giorni ebbe pure a soffrire un inutile strappo di affreschi. In quella circostanza venne inoltre sistemata in meglio la vecchia e fatiscente casa prepositurale, tenendo calcolo dei suoi rapporti con la basilica. Comunque, affinché il sacro complesso edilizio possa dirsi completamente restaurato non rimarrebbe che trasferire altrove la sagrestia addossata alla nave meridionale (provvedimento di difficile soluzione pratica). Studiosi ed amatori d’arte, italiani e stranieri, non tralasciano di visitare l’interessante basilica e battistero. Tra le molte, piace ricordare la visita fatta da Umberto I, re d’Italia, nell’ottobre 1890, mentre villeggiava nella villa reale di Monza, e dalla regina Margherita nell’ottobre dell’anno seguente, e quella di Mons. Achille Ratti, di poi eletto Sommo Pontefice col titolo di Pio XI. Il vicariato di Agliate è attualmente (1971) scomparso per la seconda volta, assorbito da quello di Carate. Dal Concilio Vaticano II venne un fermento di gravi riforme, e fra questa una nuova strutturazione dei Vicariati, per cui non pochi furono soppressi. Altri, a suo tempo, diranno della più o meno opportunità, utilità, ed efficacia di queste riforme.

Interno della basilica.
(La scheda Rinaldo Beretta, Agliate e la sua basilica, è tratta da: http://www.circulturaledonberetta.it/opera_omnia/05_opera/01_libri/09_aglia/aglia.html - si ringrazia)



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Progetto Parzifal
Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.

Viaggiare. Dentro. Fuori.
Occhi. Lago di Nuvole.

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