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lunedì 23 luglio 2012

Luca Giordano, San Sebastiano (1650 ca.). Lucca - Palazzo Mansi - Pinacoteca.

Aνάβασις

Orpheus. Eurydike. Hermes


Luca Giordano (Napoli, 18 ottobre 1634 - Napoli, 12 gennaio 1705)
San Sebastiano (1650 ca.)
Lucca - Palazzo Mansi - Pinacoteca.
Olio su tela, cm. 113,5 h x 93,5
(Foto di PS)




"E' sceso il buio intorno
mi vedi
è ancora vivi a la fiamma
che trema
prendi ancora fiato
e andiamo
non ti spaventare
noi possiamo

Faremo fino in fondo
ogni strada chiusa
supereremo gole
fiumi di acqua velenosa

Ogni giorno è un salto
e un posto caro da lasciare
dormi che tra poco è chiaro
e ti dovrò svegliare



Meno male che si sei ancora
meno male che ci sei tu
dietro una porta sbarrata a tutti
sei riuscito a trovarmi

Meno male che si sei ancora
meno male che ci sei tu
per una via sconosciuta agli altri
sei riuscita a toccarmi

La notte è ferma adesso
ci aspetta
il profondissimo mare asciutto
in cui perdersi e nuotare
guarda che sia leggero il peso
poco puoi portare
lascia ogni fatica
lascia andare

Meno male che si sei ancora
meno male che ci sei tu
giravo a vuoto senza partire
sei riuscito a guidarmi

Meno male che batte ancora
meno male che arrivi tu
cadendo indietro tra le tue dita
fino a dimenticarmi

Passeremo freddo e vuoto
solo allora si vedrà
che brilliamo ancora nel profondo dove il cielo
meno male che ridi ancora
meno male che sei con me
ogni ora che va veloce
sei tu la cosa che resta
l'unica cosa che resta."



Malika Ayane - Pacifico
L'Unica Cosa Che Resta

(Pubblicato in data 30/mar/2012 da  - si ringrazia )

Pacifico Feat. Malika Ayane "L'unica cosa che resta". Il primo singolo del nuovo album di Pacifico, pubblicato da Sugar, intitolato "Una voce non basta", in uscita il 27 marzo 2012.


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Etichette: Orpheus. Eurydike. Hermes.
Testi scelti e pubblicati da: Losfeld, 25 luglio 2012 12:21

Autori dei testi:



ONOFRIO. Marco Onofrio, Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale.
- ID., Il mito di Orfeo.
PIETRANGELI. Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica.

"Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale - Scritto da Marco Onofrio
La poesia è la chiave capace di aprire i cuori per liberare tutti i colori che contengono: capace di scardinare la resistenza opaca e ottusa della materia, per sviscerarne il segreto più intimo, il mistero profondo che trattiene. Tutte le cose sono “piene di dei”, pensavano gli antichi greci. Parafrasandoli, potremmo dire che son piene di musica: nel senso che è la musica il “vettore” maggiormente in grado di tradurre, ai nostri sensi limitati, le vibrazioni della loro energia fondamentale. Tutto l’universo palpita e respira come un organismo - se ascoltiamo bene possiamo sentirlo.
Chi è dunque il poeta? Colui che può riconoscere in Orfeo il suo prototipo eterno. Orfeo: il mitico cantore tracio che ammansiva le fiere e incantava la natura con la sola forza della voce e l’armonia suprema della sua musica. Il poeta, nel ricordo del mito che incarna, è chiamato ad essere una specie di mago, un “orfico seduttore”: uno insomma che “ci prova” con la realtà, che tenta di sedurre le cose, di indurle a donarsi, a concedere il proprio nocciolo di energia fondamentale, la scintilla di divinità che custodiscono gelosamente alle radici del loro mistero. Perché la realtà, per quanto “bisbetica”, può essere felicemente, benché non facilmente, “domata”: tutto dipende da come il poeta sa esercitare, con quali e quante arti, questa sua intensa e assidua opera di seduzione. Come una donna, la realtà non resta indifferente alle attenzioni: così, tranne che in rari casi, finisce per concedersi. A chi la guarda meglio. È un attimo improvviso che, nell’offerta del suo portato, si staglia con l’impronta di un miracolo. Come una bacca vergine e deiscente: la scorza si apre da sola, quando meno te lo aspetti, e lascia baluginare - tremenda nel suo splendore - la “cosa” imperscrutabile che accoglie, cioè il mistero stesso che la sostanzia. È un attimo fuggente, certo, ma basta a fare della poesia quello che essa realmente è: epifania, scintilla di rivelazione. È allora che il poeta varca la “soglia epifanica”, ovvero il suono del silenzio, il confine dell’indicibile. Sono “attimi eterni” che tutti attraversano, non solo i poeti (nella misura stessa in cui la poesia è qualcosa che tutti ci riguarda): istanti che a loro volta ci attraversano, in cui ciascuno di noi sfiora la comprensione di tutto, riprendendo contatto, nelle proprie, con le radici interne del cosmo, con l’invisibile, con l’assoluto. È allora che “qualcosa” ci passa attraverso, nel mentre stesso che nasce, sgorga e sale dall’interno più profondo, dal cuore originario del nostro essere pensante: parole, immagini, echi, aloni, alchimie, musiche… catene di ritmi e di suoni… Il poeta è “semplicemente” colui che non lascia passare questo “qualcosa”, e che anzi vuole coglierlo e fermarlo, perché anzitutto sarebbe un peccato disperdere tale e tanta ricchezza originaria; poi perché precisamente a questo lo chiama la propria natura costitutiva, la propria vocazione: non potrebbe comunque esimersi o fare altrimenti - e non sa spiegarne il perché!"


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"Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale - Scritto da Marco Onofrio (1)
Il poeta è dunque, nelle diverse fasi del suo procedimento conoscitivo, rispettivamente “raccoglitore”, “decriptatore” e “comunicatore” di epifanie. È un’energia immensa,
sconfinata e, con ciò, pericolosa, quella che lo pervade. È la forza originaria dell’essere. Egli cade in una sorta di trance creativa, come uno sciamano quando entra in comunicazione con gli spiriti. Varcata la “soglia epifanica”, il poeta non sa più - letteralmente - quel che dice: sragiona, straparla, come un folle un invasato un visionario.
Nessuna Ragione è più in grado di contenerlo, se non quella oscura e occulta cui egli deve obbedire, e che gli “detta dentro”: la ragione che la poesia stessa autodetermina e a cui, riconoscendola, consapevolmente vuole appartenere. Scrive Giordano Bruno negli Heroici furori: «La poesia non nasce da le regole se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalle poesie”. E tuttavia il poeta continua a usare il linguaggio, i verbi dell’umana comprensione. È il “furore poetico” teorizzato nello Jone platonico, laddove i poeti appaiono come “ventriloqui della divinità”, tali cioè che noi, “udendoli, ci avvediamo che non essi, che sono fuori di mente, dicono così mirabili cose, ma Dio stesso, il quale per bocca loro parla a noi”. Il poeta dunque come “anello di mezzo” tra Dio e uomo; cioè, in quanto tale, come “essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato da un dio, se prima non sia uscito di senno, e più non abbia in sé l’intelletto». Concetti che hanno segnato, nell’arco dei secoli, lo svolgimento della tradizione “orfica” della poesia, intesa quest’ultima alla maniera di Orfeo, come “musica anzitutto”, oscuro turbine di suoni, onda ipnotica, sortilegio incantatorio, espansione lirica dei confini dell’individuo. Si pensi ancora a Shelley, grande romantico inglese, che nella sua Difesa della poesia definisce i poeti come “ierofanti di un’ispirazione non appresa; specchi delle ombre gigantesche che il futuro getta sul presente; parole che esprimono ciò che essi non intendono; trombe che chiamano alla battaglia e non comprendono ciò che ispirano; influenza che non è mossa ma muove”. E tuttavia: non sempre il dettato poetico obbedisce a questo “entusiasmo”. Ci sono casi in cui la cosiddetta “ispirazione” abortisce, o non riesce al meglio, perché è impura, e il momento creativo disturbato o non opportuno: nessun miracolo è scontato! Più spesso si parte da un grumo informe di materia e da lì, pazientemente, si procede con gli strumenti di un accanito e incontentabile labor limae: correggere e correggere senza posa, alla ricerca della migliore resa espressiva. Anzi: è rarissima la poesia “sacramente necessitata”, che nasce già bell’e pronta, perfetta così com’è.
Il poeta non può rinunciare mai del tutto alla propria razionalità, nello stesso istante in cui si apre al massimo volume della fantasia. È un po’ come Teseo che si addentra
nel labirinto per affrontare il Minotauro: ha bisogno del filo di Arianna (cioè della ragione) per uscirne vivo.
Anche per questa capacità di mettere in contatto e coniugare la parte razionale e quella irrazionale, contribuendo al riordino delle energie - e dunque agli equilibri mentali e
vitali dell’uomo - la poesia è un’arte completa, meravigliosa e soprattutto utile a ciascuno di noi, poeta o non".(Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-angolo-della-poesia/item/11566-della-poesia-soglia-epifanica-e-musica-essenziale.html)
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 -
"Come affrontare il mito di Orfeo? Suggerisce Kerényi: “L’unico modo giusto di comportarsi nei confronti della mitologia è lasciar parlare i mitologemi per se stessi e
prestar loro semplicemente ascolto”. E Nietzsche: “Il mito vuol esser sentito intuitivamente come un esempio unico di una universalità e di una verità che hanno lo sguardo fisso sull’infinito”. Per intanto, dunque, disponiamoci all’ascolto puro e semplice della fabula, nelle sue essenziali informazioni.
Figlio di Apollo e della Musa Calliope, nato alle pendici del monte Rhodope (in Tracia), Orfeo canta e suona così dolcemente che non solo gli uomini, ma anche le belve e
persino le piante e le rocce (rotolando) accorrono a udirlo. La sua melodia stregata valica ogni ostacolo, addolcisce ogni cuore, scioglie la ferocia e la tristezza del mondo.
Orfeo conduce ogni cosa alla gioia. Al suo canto fiumi arrestano il loro corso per ascoltare, uccelli volteggiano a stormi, pesci guizzano dalle cupe azzurrità del mare. Orfeo cresce in Pieria, il Paese delle Muse olimpiche. Apollo in persona lo ammaestra nell’arte del canto e gli regala la lira di Hermes. La leggenda lo vuole partecipe alla spedizione degli Argonauti: più debole degli altri, egli non rema, ma detta la cadenza, funge da “capovoga”. Inoltre assolve un ruolo di sacerdote, essendo l’unico iniziato ai Misteri: scongiura i pericoli con rituali magici; durante una tempesta calma l’equipaggio e placa i flutti col canto; riesce a trattenere i compagni dalla malìa delle Sirene, superandole in dolcezza. Ama, riamato, la ninfa Euridice. Il giorno stesso delle nozze Euridice è morsa da un serpente velenoso e muore. Dopo averla pianta a lungo, Orfeo tenta di scendere nell’Ade per riaverla con sé. Con la sua arte sublime commuove il traghettatore Caronte. Al suo passaggio le Danaidi, Tantalo e Sisifo possono sospendere per un attimo l’espiazione della condanna. La ruota di Issione si ferma, le Erinni rimangono interdette, piangono le anime che si radunano intorno a Orfeo. Ma questi procede spedito, senza curarsi di ciò che lo circonda, facendosi largo fra le ombre. Giunge infine dinanzi al trono di Ade e Persefone, cui significa il motivo che lo ha spinto fin laggiù. Persefone si lascia commuovere dalla sua struggente melodia e sussurra parole pietose all’orecchio del consorte, la cui testa abbozza un assenso: Orfeo potrà riottenere l’amata, a patto però di non voltarsi a guardarla prima della luce, secondo la legge degli Inferi, dove nessuno sguardo, ma solo la voce è consentita. Intraprende così la strada del ritorno, seguito da Euridice accompagnata da Hermes".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 - 1.
"A questo punto ci sono due versioni: una attesta che Orfeo riesce a riportare a casa Euridice e a vivere felicemente con lei il resto dei suoi giorni; l’altra che, giunto alla
porta dell’Ade e ormai ad un passo dalla luce della salvezza, Orfeo si lascia cogliere dal dubbio e dall’impazienza, non resiste più e si volta a guardare, contravvenendo così al veto degli déi. “Euridice!” egli grida protendendo le braccia, ma le sue mani afferrano non altro che aria fredda mentre la figura velata svanisce, sottratta da Hermes, come inghiottita - e stavolta per sempre - dal silenzio e dall’oscurità. Orfeo tenta invano di inseguirla e di tornare indietro: Caronte non lo lascia più passare. Da quel momento cade un’ombra dionisiaca sulla sua essenza apollinea. Sulla morte di Orfeo si contano diverse varianti. In una è Zeus che lo trafigge col suo fulmine per punirlo di
aver educato all’orphikos bios, di aver iniziato ai misteri e all’origine delle cose e degli déi, gli uomini traci presso una caverna alla foce del fiume Stimone. In altri casi viene assalito e dilaniato dalle donne tracie, offese perché dopo aver perduto Euridice egli si astiene dall’amore, oppure dalle Baccanti sul monte Pangeo, pronte a riconoscere in lui l’avversa natura apollinea. La testa, decapitata e inchiodata sulla lira, fluttua per fiumi e per mari continuando miracolosamente a cantare. Smirne, Libetra, Dione o Lesbo: dovunque si ritenga sepolto Orfeo, gli usignoli cantano più dolcemente e più forte che altrove. La sua lira, che nessuno è degno di ereditare, viene posta da Zeus fra le costellazioni".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 - 2.
"Questa la fabula.
Dovremo ora interrogarci sui suoi significati. Quali sfere dell’esperienza umana il mito di Orfeo sia deputato a rappresentare. Di cosa sia emblematico, in termini astratti, a
prescindere dalle singole incarnazioni. Cosa infine possa dire e cosa effettivamente abbia detto alla cultura moderna. Orfeo è personaggio di un mito sempre ricorrente all’attenzione della cultura occidentale, prossimo alle questioni tecniche e teoriche del fare creativo, baluginante dal vivo delle riflessioni sul senso dell’arte, in particolare di poesia e musica. Da Platone a Pindaro, Virgilio, Ovidio, Poliziano, Monteverdi, da Lope de Vega a Calderon de la Barca, Lully, Gluck, Listz, da Nerval a George, Mallarmé, Nietzsche, D’Annunzio, Apollinaire, Campana, da Kokoshka a Rilke, Cocteau, Anouilh, Camus, Williams... è praticamente sterminata la schiera degli artisti e dei pensatori che in ogni tempo, sedotti dal fascino di una delle figure più oscure e cariche di simbolismo della mitologia ellenica, hanno lasciato una loro interpretazione o rielaborazione, talora personalissima; oppure orientato le loro opere secondo schemi e modi di pensiero che potremmo definire “orfici”; oppure, più semplicemente, utilizzato l’immagine o il nome di Orfeo quale emblematico supporto ai loro enunciati critici o prodotti artistici. Il cantore tracio diventa, così, ispiratore e quindi testimone di un certo modo di concepire ed esercitare la pratica creativa, giacché - scrive Franco Ferrucci - “è poderosamente e talvolta elaboratamente dialettico. La semplicità gli è sconosciuta, anzi c’è in lui nei riguardi della semplicità una marcata distanza, quasi fosse un patto debilitante”. L’artista “tormentato e insoddisfatto è molto spesso un Orfeo. Chi non ricorda l’ira di Michelangelo contro il Mosè (la cui statua era certamente un autoritratto orfico), e le accorate deplorazioni di Dante sulla difficoltà di descrivere l’oltremondo divino?” Questo tipo di artista smania per una certa grandeur di tono espressivo, che si traduce nella possibilità ultima e mai sopita di accarezzare una visione totale del mondo (Dino Campana, autore dei Canti Orfici, scrive: il “sogno della vita in blocco”), quasi obbediente a una volontà egemonica di conquista, di dominio cosmico sugli elementi. Ed ecco allora il rischio di una possibile caduta “nel turgore e nell’oscurità”, dove solo il genio, eventualmente, può risollevarlo. Come accade in Wagner, che “è un ottimo ritratto di Orfeo, del quale non gli manca neppure una caratteristica - compresa la tendenza malinconica, e compreso il serrato rapporto con la morte”.
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2.
"Secondo Charles Segal (che ad Orfeo ha dedicato un ampio e suggestivo saggio) gli elementi fondamentali del mito configurano un triangolo costituito da "arte", "amore" e "morte".
"Il significato del mito cambia a seconda di quali diversi elementi si pongano alla base del triangolo: amore-morte, amore-arte, arte-morte. Per un verso Orfeo incarna la
capacità dell'arte, della poesia, del linguaggio - "retorica e musica" - di trionfare sulla morte; il potere creativo dell'arte si coniuga col potere creativo dell'amore. Per altro verso il mito può simboleggiare lo scacco dell'arte di fronte alla necessità ultima, la morte."
Il prodigioso "poeta archetipo", in grado di smuovere col suo canto l'intera natura, rappresenta la forza dei processi vitali, e il sigillo civile della presenza umana nel cosmo,
in lotta contro l'abisso tenebroso della morte; e dunque, rispetto all'imperio di quest'ultima, la sacra alleanza di "arte" e "amore" - dove meglio s'imprime il segno del passaggio dentro il tempo. La versione primordiale del mito "simboleggia la funzione propria della poesia di suscitare la rispondenza simpatetica fra uomo e natura", ovvero
la "contagiosa gioiosità del canto all'unisono con essa". Il potere orfico può sprigionare, in consonanza cosmica, la melodiosità racchiusa nella natura, il canto degli elementi, la musica delle cose. Ma poi il mito, nella sua evoluzione storica, si vena di una nota di "tragismo".
Orfeo, scrive Rosalma Salina Borello: "impara da Euridice morta ad accogliere la morte, ma anche a ritrovarla nelle cose, in tutte le cose che vogliono essere dette nella
loro transitorietà."

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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2. 1.
"Il compito del poeta è allora quello di "dire le cose", celebrandole non loro essere "di passaggio", nella loro terrestrità, nel raggio in cui balenano per un attimo, sospese
sull'abisso: ricomporre e commemorare le macerie del tempo e della storia, attraverso il potere salvifico della parola. Orfeo si fa dunque figura di sincretismo, che - secondo l'interessante proposta della Salina Borello - starebbe ad indicare una "terza via" dello spirito greco, oltre le opzioni bipolari di Apollo e Dioniso.
Il mitico cantore assomma infatti in sé due aspetti contrastanti e complementari della cultura greca: l'aspetto apollineo e quello dionisiaco. Come Apollo è poeta e
taumaturgo, in sintonia con la natura, o meglio, con l'anima cosmica che plasma la natura e le sue leggi, senza esserne asservita. È ispiratore delle scienze, perché attinge all'origine di tutte le cose e ai principi di cui esse sono le emanazioni. Non è però, come Apollo, esente dalla conoscenza del dolore e della morte, ma partecipa, come Dioniso, al dramma cosmico.
Come una luce che oltrepassi l'ombra senza negarla, con-tenendola, assorbendola in sé. Infatti il lato oscuro, tormentato, orgiastico dei misteri di Dioniso viene nell'orfismo
trasceso e decantato nel culto apollineo della luce vivificante, della parola profetica, della musica.
Il mito si approfondisce, si universalizza, diventa ambivalente: un fulcro catalizzatore di energie simboliche, rappresentativo dell'umana complessità.
Scrive Segal alla fine del suo libro, quasi compendiando la debordante polivalenza che assume Orfeo per irradiazione, attraverso letture sovrapposte e stratificate, nel
tempo e nello spazio:
"Il mito di Orfeo ha offerto all'artista creativo la possibilità di percepire la propria arte come una magia capace di sfiorare corde ricettive nella totalità della natura, e di
porlo in contatto col fremito della vita allo stato puro, o del puro Essere. Il mito di Orfeo è il mito dell'importanza suprema della missione affidata all'arte. È il mito del coinvolgimento totale dell'arte nell'amore, nella bellezza e nell'ordine e armonia della natura, il tutto sotto il segno costante della morte. È il mito della magia dell'artista, del suo coraggioso, disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell'universo, e della sua speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti noi il suo viaggio."
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2. 2.
"Sono cinque le connotazioni principali che assume la figura mitica: Orfeo viaggiatore e pioniere, che partecipa alla spedizione degli Argonauti; Orfeo innamorato, che cerca e piange la sua Euridice perduta; Orfeo iniziato, che fonda i culti misterici; Orfeo poeta, che incanta con la sua musica tutto l'universo; Orfeo vittima sacrificale,
massacrato dalle Baccanti. Ma forse spetta al "poeta" la palma della maggiore e più suggestiva rappresentatività, in grado cioè di riassumere e racchiudere in sé tutte le altre vesti; sicché Orfeo è "il cantore per eccellenza, il musico e il poeta" (Grimal), che "si rivela in ciascuno degli elementi della sua leggenda come il seduttore a tutti i livelli del cosmo e della psiche: cielo, terra, oceani, inferi, subconscio, coscienza e sovracosciente", che "dissipa il corruccio e le resistenze, ammalia" (Chevalier). "Forse egli", conclude Chevalier, "è il simbolo del lottatore che è capace solo di addormentare il male, ma non di distruggerlo, e muore egli stesso, vittima della propria incapacità di superare la propria insufficienza. Su un piano superiore, egli rappresenterebbe il perseguimento di un ideale al quale si sacrifica solo a parole, ma non di fatto. L'ideale trascendente non è mai raggiunto da colui che non ha radicalmente ed effettivamente rinunziato alla propria vanità e alla molteplicità dei desideri (...) Orfeo non riesce a sfuggire alla contraddizione fra aspirazione verso il sublime e verso la banalità, e muore per non aver avuto il coraggio di scegliere". È, comunque, l'uomo che viola
l'interdetto degli déi, che osa guardare l'invisibile, pagando di persona tutta l'imprudenza del suo "gesto folle". Linforth interpreta Orfeo come figura di artista-mago, Dodds ne fa un "prototipo degli sciamani".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3.
"Orfeo continua di lontano a seminare il proprio richiamo, ad allungare silenziosamente il proprio sguardo come un arcobaleno sopra distese di secoli, ad evocare a sé
generazioni di sempre nuovi adepti. Come ad esempio, in Italia, molti dei cosiddetti "petrarchisti dell'Ermetismo", o come i giovani poeti della scuola neo-orfica milanese degli anni '70. Ma anche a livello teorico, nel campo della scrittura saggistica, della critica letteraria. È il caso del francese Blanchot, che ne L'espace littéraire, teatro di una riflessione filosofica esercitata "in fieri" sul terreno della letteratura come esperienza, fonda sul mito di Orfeo e sul tema del suo sguardo le basi della propria estetica.
Per Orfeo che scende verso Euridice (il poeta che avvicina la Poesia) l'arte è la potenza grazie a cui si libera l'"essenza della notte". Euridice è il confine, il limite estremo.
"Nascosta sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre" è il punto interiore ed essenziale verso cui tende il desiderio dell'artista. Il "proprio" di Orfeo (ciò che lui desidera) è avvicinarsi a questo punto scendendo nelle profondità abissali di se stesso, per riportarne con sé il dono e farlo emergere in superficie, verso il "grande giorno" (Campana direbbe "il più chiaro giorno") dell'opera, della forma, della consistenza. Ma egli "può tutto, fuorché guardare in faccia questo punto, fuorché guardare il centro della notte". La legge impone che l'opera possa nascere solo quando l'artista non persegua deliberatamente "l'esperienza smisurata della profondità", che può rivelarsi solo con la dissimulazione. Orfeo non accetta, non può accettare questa legge: vuole guardare ciò che deve essere dissimulato, e vuole vederlo proprio in quanto invisibile, estraneo ad ogni intimità e proibito alla conoscenza. L'errore di Orfeo sembra allora essere nel desiderio che lo porta a possedere Euridice, mentre il suo solo destino è cantarla. Desiderio e canto necessitano della distanza ed escludono il possesso. Tuttavia Orfeo può essere davvero se stesso solo "perdendo", se stesso ed Euridice: solo volgendo il capo, perché questo è il solo modo per avvicinarsi al centro della notte ed essere poeta. Guardando Euridice Orfeo obbedisce all'impulso profondo dell'opera, all'impaziente desiderio di giungere alle radici oscure del proprio canto, a costo di smarrirne la voce e l'identità. Questo impulso è l'ispirazione: "L'ispirazione dice la rovina di Orfeo e la certezza della sua rovina, ed essa non promette, in cambio, la riuscita dell'opera". L'opera tocca con essa la propria fragilità e si scopre inessenziale, perciò le resiste così spesso e così tenacemente".

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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3. 1.
"Per venire alla luce, l'opera esige da Orfeo (da ogni poeta) la negazione dell'atto che invece egli "deve" compiere, afferrato per i capelli da un desiderio notturno e
originario. Riallacciandosi al discorso di Blanchot, Detienne pone il mito di Orfeo all'origine della scrittura, cioè del bisogno di fondare l'esperienza del mondo attraverso la formalizzazione della parola scritta. Orfeo sembra splendere all'incrocio stesso delle due potenze originarie: voce e scrittura. C'è anzitutto il "canto di Orfeo che viene prima della parola che trascina attorno a sé gli animali del silenzio, le vite più mute. Ma la scrittura è già là, abitata da questa stessa voce; e si avverte un tumulto di libri, di discorsi che si scrivono attorno al canto di Orfeo". La voce di Orfeo è anteriore alla parola articolata, è la musica prima del verso, il canto senza parola. Il canto di Orfeo
sgorga come una magia originaria e si racconta negli effetti che produce prima ancora che nel suo contenuto, e innanzi tutto nel suo valore centripeto, che riunisce attorno alla voce gli esseri animati ed inanimati della terra, del cielo e del mare. Ma è Orfeo, ancora lui, ad aver portato agli uomini la scrittura, dopo averla imparata dalle Muse: egli è pertanto il fondatore della cultura, del sapere enciclopedico, della civiltà. È il canto di Orfeo che "produce la scrittura; si fa libro; si scrive in inni e magie, cosmogonie, discorsi teogonici e grandi composizioni che comprendono sei generazioni di potenze divine", giacché "la magia dei libri è potente tanto quanto il canto e trionfa sulle deleterie potenze dell'oblio"; anzi: "chi possiede la scrittura e legge Orfeo non conoscerà mai la morte propria degli altri". Nell'orfismo religioso c'è dunque la scelta consapevole della scrittura come strumento soteriologico di rinascita spirituale. La salvezza si ottiene anche attraverso la letteratura; si conquista attraverso la scrittura che coincide assolutamente con il genere di vita orfico, una scrittura che esprime il trionfo di Orfeo sulla morte e sull'oblio. La "voce scritta" e la "scrittura cantata" di Orfeo aspirano, nella loro complementarità, a rendere il tempo circolare, per sciogliere la stretta dei suoi lacci, collegando Dioniso ad Apollo: ovvero, le dinamiche della dissipazione a quelle della creazione, la tenebra alla luce, la dismisura alla misura, la morte alla rinascita. Infatti, secondo la psicanalisi, "la discesa agli inferi alla ricerca di Euridice è un desiderio di ritorno al seno materno". Orfeo "sublima la sua libido incestuosa nei canti con cui placa Cerbero, simbolo della resistenza
contro l'incesto": e "questo trionfo fonda a un tempo la sua potenza e la sua colpevolezza". Lo smembramento ad opera delle Baccanti è infine il "simbolo di una castrazione consentita".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3. 2.
"Ma chi è Euridice? È la "sposa di tenebra" di Orfeo: la sua stessa zona d'ombra. Secondo Max Müller i nomi che cominciano in uru in sanscrito e in euru in greco sono
quasi sempre nomi mitologici dell'aurora e del crepuscolo. Euridice, come Eurifea (madre di Elio) o Euripile (figlia di Endimione) è uno dei nomi greci dell'aurora. Il nome di Orfeo deriverebbe dal sanscrito ribhus, che significa cantore o poeta: nei Veda il termine sanscrito arbhu è usato come epiteto di Indra e designa il sole. Euridice rappresenta il punto di passaggio tra la luce e l'ombra, tra il giorno e la notte: in entrambi i sensi, sia quindi come crepuscolo, sia come aurora. L'ultima luce del crepuscolo viene uccisa dal morso del serpente, vale a dire: inghiottita dalle fauci della notte. Euridice muore e discende nelle regioni infernali. Orfeo (cioè il sole) la segue, discendendo oltre la linea di confine, all'orizzonte. Laggiù Orfeo riesce a riconquistare Euridice: colei che, in risalita, sarà ormai la sua stessa aurora. Adesso è Euridice che lo segue. Orfeo che si volta a guardarla, nonostante il divieto, è il primo raggio di sole che uccide l'aurora, dissolvendo in piena chiarità la sua soglia umbratile e confusa.
Ma perché Orfeo non sa resistere alla tentazione dello sguardo? Perché proprio alle porte del giorno non può rinunciare alla sua zona d'ombra? Quasi colto da folle impazienza d'amore: "subita incautum dementia cepit amantem", scrive Virgilio nelle Georgiche. Un eccesso d'amore che porta l'amore a perdersi. Ma è un'emergenza ancora più irresistibile di un desiderio erotico. Un ritorno alla luce che fosse obbediente al divieto infero, privo cioè di sguardo notturno, porterebbe sì Orfeo a riavere Euridice viva, in carne ed ossa, ma a perderla per sempre come sposa di tenebra. E uno come Orfeo non può rinunciare alla sua zona d'ombra: ne andrebbe della sua stessa capacità di cantare, di essere poeta: quindi, di essere se stesso. Osando volgere il suo sguardo di conoscenza, cioè di possesso, sul regno oscuro di Thanatos da cui sta emergendo insieme ad Euridice, Orfeo tenta un'impossibile sintesi di opposti: affermare il mistero della notte alla chiarezza del giorno, che ovviamente non può accettarlo.
E allora perde Euridice due volte: come ombra e come luce. E tuttavia Orfeo per un istante ha guardato. E ha visto. L'attimo che lo separa dai due regni in cui si inscrive il reale illumina per lui un'altra regione, a metà strada tra l'ombra e la luce, un terzo regno. E allora perché Orfeo guarda indietro? Orfeo guarda indietro perché è un poeta, e non può non obbedire al suo destino, alla sua natura, alla sua missione. Il poeta è un prometeico "ladro di fuoco", che ferma il lampo della luce e afferra il guizzo della vita, per salvarli dentro l'arca del suo scrigno, dentro la valva delle parole; è "colui che sa, nel luogo stesso della morte, riappropriarsi di un bene e darne ad altri il gioioso possesso, malgrado tutto". E infatti quello sguardo è il solo che possa, tra due mondi, consegnarci il reale e farlo accedere a un essere di linguaggio che, per parte sua, sarà per sempre preservato da ogni alterazione e da ogni minaccia. La letteratura salva e rende eterno non il reale in sé ma ciò che in esso si dà fuggevolmente, nella grazia dell'istante e al limite della sua perdita, come la sua essenza incorruttibile. È esattamente questa grazia che lo sguardo all'indietro rivela".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 4.
"Allo ‘sguardo di Orfeo' s'interessa anche Salvatore Lo Bue, che differenzia tra due tipi di poesia: il melos (assoluto incantamento musicale) e la pòiesis (forma di
conoscenza). Custode e simbolo del primo tipo è l'originario Orfeo agamos (cioè solitario, senza Euridice) attraverso la cui voce gli déi ascoltano e rivivono l'armonia del principio, la nascita del mondo, l'infanzia dell'umanità.
Egli conduce ogni cosa alla luce, poiché è poeta armonico, devoto a Helios, difensore del cosmo ermetico. Gli déi non lo temono poiché egli non osa metterli in dubbio e ha
accettato di contrarre con loro un mutuo foedus di non belligeranza, tramato di menzogna alle spalle dell'uomo. Infatti, lo uccidono le Baccanti, istigate alla vendetta da Dioniso (dio dell'oscurità umana). Il secondo tipo di poesia pertiene all'Orfeo libero contro gli déi e umanizzato. L'umanizzazione di Orfeo segna la sua dolorosa e solitaria libertà di poietes, capace di una parola infinitamente meno suggestiva ma carica di pensiero, una parola che insegna agli uomini e rivela loro, oltraggiosamente, i segreti degli déi. Da scriba del cosmo ermetico Orfeo diviene figura della contraddizione, del principio tragico, del Logos. In entrambi i casi è figura di relazione tra Physis e Mytos: armonica prima, oppositiva poi. La differenza sta proprio nello sguardo e si gioca nel diverso esito (positivo o negativo) della catabasi in Ade. Nel mito di Orfeo la catabasi è una variante successiva (non attestata prima del VI secolo a.C.), che segna l'apparizione di Euridice e contraddistingue la nascita dell'Orfeo poietes. Affrontando la catabasi, l'Orfeo melico ottiene facilmente Euridice e tuttavia resta agamos, giacché la riporta alla luce senza conoscerla veramente e a prezzo della propria libertà, restando prono alle leggi degli déi. L'Orfeo poietes, invece, perde Euridice guardandola, e la perde proprio perché la guarda e in tal modo la conosce, contravvenendo al divieto degli déi che temono la parola libera e pretendono cieco il poeta. Questo secondo Orfeo rompe l'equilibrio fra Natura e Mito e svela il vuoto sinora celato nell'essenzialità del nome, cioè nella perfetta coincidenza fra essere e nome. È l'ipostasi del passaggio fra due epoche: il mondo del Mytos comincia a vacillare sotto i colpi spietati e spregiudicati del Logos. Il Mytos cerca di difendersi arroccandosi nell'ultimo eden, quello della catabasi con esito felice - non a caso la versione del mito di Orfeo in cui i Greci preferiranno continuare a credere".

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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 4.1.
"La notte ermetica aveva originato il nome degli déi, quindi gli déi stessi. Principiati dal gioco poetico originario, gli déi si erano a loro volta posti come increato e assoluto
principio di tutte le cose. Lo scriba che stava all'ingannevole gioco, il reggitore dell'universale menzogna, il compare degli déi, poetava a patto di negare se stesso in quanto creatore. L'Orfeo poietes, invece, comprende e svela che gli déi sono un'invenzione umana; non solo, ma arrischia sé e la parola nel punto originario di ogni nominare, nel fondamento stesso della creazione poetica, rendendola e rendendosi più consapevole dei propri mezzi. Il che significa accettare la nudità originaria, il rischio di trovarsi soli dinanzi al baratro della privazione, centrati nella propria essenza, pericolosamente liberi di pensare, senza più illusioni o false certezze, estranei per questo al mondo degli déi come a quello della maggior parte degli uomini che non tollera - al pari degli déi - la libertà difficile. Una nuova poesia, non religiosa ma umana, che non dà gioia ma semina l'alito scuro della disillusione, che mostra le verità contraddittorie dell'esistenza senza comporle in alcun rasserenante ordine, che osa parole illecite per dire l'uomo "sogno di un'ombra", fino ad esserne il compiuto e veritiero discorso. Lo sguardo di Orfeo segna dunque lo stacco fra due modi diversi di intendere obiettivi e modalità del fare poetico, il passaggio dalla svenevole acquiescente dolcezza del melos alla parola ruvida, scabra, densa di pensiero. È l'invenzione della tragedia, del disincanto, della libertà, della responsabilità individuale. L'uomo da solo dinanzi a se stesso e al proprio destino. Il poeta chiamato ad una nuova ‘sapienza epistemica' della propria arte. Non più irresistibile ammaliatore, non più scriba del Mytos, non più divino aedo delle origini. Questa nuova tipologia di poeta rappresenta lo sgorgare del Logos dal cuore stesso del Mytos (a significarne la crisi d'identità) ed incarna l'essenza della "poiesis platonica. Platone, che nel Simposio giudica con palpabile acredine il destino di Orfeo (è la prima voce autorevole a sostenere l'esito negativo della catabasi motivandolo con l'ignavia del cantore tracio, giudicato "fiacco nell'animo, vile nel canto, incapace d'azione"), preconizza l'avvento di una poiesis "pasa aitia", complessa e autocosciente, principio e termine di sé, ma soprattutto in grado di svegliare gli uomini dall'imperturbabile sonno delle favole, di insegnare loro grammata e sophien, parole e sapienza, verità. Tutto questo comporta l'apparizione di Euridice e l'imprudente gesto del suo sposo. Basta l'accorpamento di una costante mitica tradizionale come la catabasi in Ade a modificare i connotati dell'originario Orfeo agamos, a mettere a dura prova l'integrità del suo significato, o per lo meno a turbarne l'univocità, offrirne una possibile alternativa, d'ora in poi ineludibile".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 5.
"Nel mito "in effetti sono concepibili numerose combinazioni, ognuna delle quali produce una variazione di senso per modificazione interna o esterna, relativa o collegata
all'una o all'altra delle unità costitutive", sostiene Jean Rousset nel suo prezioso studio su Don Giovanni. Con o senza sguardo, fiacco o dominatore, trionfatore o sconfitto, Orfeo ha continuato e continua a rappresentare, ad ogni modo, qualcosa d'imprescindibile, di non riconducibile alla singola interpretazione: il nucleo forte, l'unità costitutiva, l'invariante del mito.
Qualcosa che Orfeo non potrà mai fare a meno di significare; sicché, astratto in chiave metastorica, Orfeo può dirsi "simbolo di ogni differente pensare e sentire l'origine
della poesia". Dovunque il poeta, forte di una purezza disinteressata, ma non irresponsabile, rinunciando alle illusioni accomodanti e alle facili promesse, sappia recedere alla sorgente del proprio canto, laddove è necessario resistere alla terribilità dell'iniziale che baluginando sorge, nella divina saggezza dell'attesa, nella maturità del silenzio; dovunque egli sappia soggiornare nell'oscurità dell'indistinto che non conosce appigli, anelando alla luce del riscatto; dovunque egli sappia lavorare (come scrive Jean Cocteau) "molto in alto e senza rete di soccorso", tuffandosi nell'alterità più irreducibile alla misura di ciò che si conosce, attraversando universi di vuoto, desolazione, vertigine e silenzio; dovunque si appalesi il profondo valore umano e mondano (pur nell'aspirazione al trascendente) di una poesia incisa nella carne e nel dolore della vita; dovunque la nutriente forza del pensiero accenda e avvalori il fuoco dell'incanto, il misterioso potere del suono e del ritmo; dovunque la poesia sappia porsi come fondamento, di conoscenza e civiltà, come cifra di quel che è proprio dell'uomo, come rivelazione di ciò che all'uomo non compete, di ciò che l'uomo non raggiunge: è là che potrebbe apparire, da un istante all'altro, dal corpo stesso dell'arte che egli rappresenta, l'universale figura di Orfeo; là che la poesia sembrerebbe quasi miracolosamente scaturire dalla sua settemplice lira incatenata alle costellazioni del cielo, fino ad identificarsi con la melodia sacra, la ragione segreta, l'essenza più profonda e irraggiungibile di tutte le cose.
In epoca moderna la figura di Orfeo è più che mai atta a rappresentare le molte zone d'ombra di un uomo che la cultura ufficiale, quella del consenso allo status quo,
vorrebbe cinto di apodittiche certezze, oppure fondato sulla certezza dell'incerto, sull'accertamento di una crisi fin troppo nota, estesa a mito, banalizzata a luogo comune, in un dissenso facilmente controllabile perché previsto e anzi tollerato dal sistema, dalle stesse istituzioni del potere: l'ombra di quelle forze istintuali, di quella libido che è
necessario reprimere e controllare, acciocché sia ancora possibile una civiltà. Ed è proprio nel nome di Orfeo che Marcuse stigmatizza l'eccedente sacrificio della libido imposto a ogni individuo nella moderna società capitalistica occidentale".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 6.
"La disfatta e il trionfo del mitico poeta divengono "simboli della perdita e del tentativo di recupero dello spirito del canto da parte dell'uomo in un mondo di alienazione, di
violenza e di esistenza spersonalizzata e mitizzata" (Segal). Il legame inscindibile tra parola e musica - scrive Enrico Fubini - trova allora la sua "vita autentica nel canto come fenomeno naturale, come espressione dell'uomo in quanto essere naturale, non ancora alienato e diviso nelle sue facoltà dalla civiltà, dalle regole sociali, dalle necessità e dai bisogni.
Recuperare il canto come unione, fusione di parola e musica, significa recuperare l'uomo nella sua integrità, nella sua mitica naturalità, nella sua pienezza espressiva".
L'avventura stessa della poesia moderna e contemporanea "rischia" di coincidere in gran parte con il cammino di Orfeo verso la Notte, alla ricerca di una luce autentica di liberazione, di un'alba impossibile. La crisi della coscienza razionale spinge fin dalla seconda metà del ‘700 ad un'esplorazione sempre più acuta e profonda dei panorami interiori. Rousseau, grande antesignano delle paranoie del nostro secolo, sostituisce al "cogito" di Cartesio un ben più ineffabile esprit de finesse: è la fantasia che si libera dai vincoli del verosimile, del buono, del razionale. Con e dopo di lui comincia "l'epoca della fuga dalla cultura. Poeti e visionari, da Chateaubriand a Lenau, fuggivano dalle città via via sempre più imponenti verso le intatte foreste della Virginia, le incantate savane africane, le montagne asiatiche che sfioravano il cielo, o verso le isole dei mari del Sud dimenticate dal mondo. Essi fuggivano le ripugnanti maschere, le gabbie e gli specchi della civiltà". I romantici oppongono una rivolta anarchica alla morale del loro tempo. L'esperienza delle sanguinose guerre del XVII secolo aveva prodotto un diffuso timore del caos, della barbarie, delle passioni: si apprezzavano l'ordine, l'intelletto, la pruderie, le buone maniere, la tranquillità. Reprimere i propri sentimenti era considerato segno di buona educazione e di nobili origini. Ma i romantici sono fin troppo sazi di quiete e cercano una vita più intensa e movimentata: ammirano le forti passioni, che forse portano alla rovina ma almeno riempiono l'animo di un'ebbrezza altrimenti non esperibile; preferiscono l'individuo alla società, gli istinti primordiali alle convenzioni civili; disprezzano l'industrialismo e sostituiscono schemi di pensiero estetici a schemi utilitaristici; considerano bello tutto ciò che è inutile, violento, poderoso, titanico, distruttivo, strano, abnorme, misterioso, terrificante; amano l'espressione diretta del sentimento, affatto libera dalle censure dell'intelletto. In arte l'immaginazione estende il suo impero oltre i confini del "normale". La poesia eredita dalle dottrine di occultisti e "illuminati" come Böhme, Swedenborg e Saint-Martin la certezza di un mondo trascendente, doppio invisibile di quello fisico, sulle tracce del quale orienta le proprie creazioni, trasformandosi in rêverie, contemplazione del mistero, colloquio con la morte, ricerca dell'Assoluto. Questa "realtà seconda" è mescolata al quotidiano, ci
avvolge e ci tocca misteriosamente: il "meraviglioso" romantico ha la pretesa di essere autentico al pari del reale. Ogni dettaglio del mondo è una parola della lingua universale, e il mondo stesso è come un Gran Libro ove tout se tient, tutto si corrisponde. Il poeta è chiamato a interpretare questa lingua, a leggere nel libro del mondo, a decifrarne il mistero, a rivelare il lato oscuro delle cose, la realtà essenziale celata dalle apparenze visibili".

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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 7.
"Le correnti più feconde e innovative della creazione poetica si consacrano alla voyance di ciò che in Francia viene detto "surnaturalisme", si tuffano nel gorgo
dell'invisibile, scelgono il sentiero oscuro e accidentato dell'irrazionale, ignota la destinazione.
I poeti camminano sull'orlo del confine tra le due realtà, come acrobati sul filo; brancolano après le déluge, in un mondo irreale e fantastico ma autoconsistente; si misurano
con obiettivi immensi, forse impossibili da raggiungere; oscillano tra solipsismo e messianismo; vorrebbero generare un "uomo nuovo" e ricondurre all'armonia (o almeno ad una disarmonia sostenibile) gli atomi scissi e febbrili del Caos. L'alienazione, cioè il modo alienato di vedere le cose, viene imputata ai "mostri" del Logos. Per guarirne bisognerebbe ammaliarli, renderli inoffensivi, abdicare alla falsa clarté della civiltà borghese, ai miti strumentalizzati del benessere diffuso e del progresso illimitato, tuffarsi nell'aperto del Sogno, nella "follia" (ciò che la Ragione chiama follia), nel magma incandescente dove bollono le pulsioni istintuali e primitive dell'Inconscio, per ritrovare la verità universale della vita: oltrepassare la banalità del quotidiano grazie al dono dell'ispirazione, oppure mediante un "lungo immenso e ragionato disordine dei sensi", oppure per stimoli artificiali. Soli e allucinati, i poeti moderni, perennemente in crisi, caduti negli abissi della privazione, orfani del Cielo, dispersi nel vuoto delle tenebre... ma con sottesa, anche se spesso amaramente rinnegata, la speranza di una luce baluginante all'improvviso dal cuore del Nulla, il "segno" capace di rovesciare lo scacco, di restituire l'armonia perduta e di svelare una volta per tutte l'arcana significazione del grande geroglifico universo. Per quel sentiero incenerito di stelle hanno scelto di addentrarsi, con passi e bagagli diversi, poeti come Novalis, Hölderlin, Hugo, Nerval, Rimbaud, Mallarmé, Trakl, Campana, Rilke, Breton, Artaud... È un sentiero che ha conosciuto il cammino di parecchi "transfughi" attraverso due secoli d'arte, dal Romanticismo alle molte avanguardie del Novecento. Ma, come ben sanno i poeti e i mistici, la discesa agli Inferi (o ai Paradisi) dello spirito non apporta facili compensi: le parole dileguano dinanzi all'ineffabile: ogni parola scritta sul foglio è solo la misura umana cui si costringe, annichilendola, la dovizia dell'illuminazione, una tregua momentanea al pericolo sempre incombente dell'afasia, un compromesso necessario ma non sufficiente; ed è, infine, il segno tangibile dello scacco che bisogna pagare in nome dell'espressione (se non proprio della comunicazione), giacché la migliore poesia possibile, rispetto a certe premesse, sarebbe non altro che il silenzio: l'Assoluto del Nulla, il Nulla dell'Assoluto. La tensione verso l'oltre è una "vuota idealità", un anelito vano e senza centro che respinge in basso con furia demoniaca colui che lo prova. Non c'è il conforto di una fede, di un "credo" istituzionale, condivisibile anche dal lettore".
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Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 7.1.
"Il poeta moderno è Orfeo "cantore" per anelito di volontà e Orfeo "poietes" per indole e destino. Vorrebbe potersi identificare con lo sciamano apportatore di salvezza
mediante le virtù lenitrici del canto; finisce per essere lo sconfitto che torna dall'Ade senza Euridice, forse con l'orgoglio di qualche conoscenza, di certo con la dolorosa consapevolezza del proprio limite, della propria inessenzialità. E anche se l'utopia salvifica passasse per l'audacia dello "sguardo", volontariamente, l'esito non sarebbe diverso. D'altra parte la sconfitta attende anche l'Orfeo "agamos", qualora egli creda davvero di poter redimere il mondo attraverso il suono dei versi, identificando il valore della poesia nella pura musicalità, tentando di riprodurre l'estasi nell'assoluta autonomia dei significanti, ridotti a balbettio magico, a nenia primordiale, a formula d'incantagione, svincolati da qualsiasi significato normativo, liberi da regole sintattiche, ormai completamente intraducibili e inafferrabili. Preferito per la sua consonanza storica e per la sua appropriatezza, la sua universale affinità al problema dell'arte, il mito di Orfeo si delinea non solo come uno dei luoghi più frequentati, ma come l'emblema stesso della condizione moderna. La figura di Orfeo mostra dunque una certa ambivalenza di connotati: incarnazione di una complessità così feconda che è in grado di offrire (e di fatto presta) il suo sostegno contemporaneamente ad opposti versanti della civiltà occidentale. In età antica, l'abbiamo visto, è anche il Mytos che si ribella a se stesso e che inaugura l'avvento del Logos; in età moderna, invece, è soprattutto il Mytos che accorre a salvare l'uomo dall'alienante dominio del Logos tecnicizzato e a ritemprare le ragioni della vita. Prima combatte i mostri generati dal sonno della Ragione; poi quelli generati dalla sua disumanità. Ed è chiaro che il mutamento (o l'eventuale contraddizione) non riguarda tanto Orfeo, quanto bensì la ricezione e l'uso che ne vengono fatti: ogni epoca, del resto, ha un suo modo particolare (a seconda delle evenienze e delle esigenze storiche) di riconoscersi negli oggetti della cultura".
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Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica
"Assunta una Verità come matrice di tutte le cose, tanto dell'essere come del non essere, nel suo espletarsi assoluta induce in errore; per altro verso, se rappresentata, riporta
ad espressioni frammentarie, fuorvia confondendo. La Verità elude la condizione fisica pur essendone parte, fintanto da veicolarla al metafisico nel pensiero. Verità che sussiste se interconnessa tanto al piano fisico quanto a quello metafisico e racchiude l'Ideale universale, condizione di perfezione ed equilibrio, eterno nell'accezione del senza inizio e senza fine in ogni sua proiezione e introiezione. Da sempre il piano fisico è caratterizzato dal mutamento sottoposto ad agenti biochimici e geofisici, panta rei eracliteo. Siamo fatti della stessa sostanza delle stelle che, a sua volta, proviene ed è parte di ciò che è sempre stato, inteso come inevitabile contiguità tra piano fisico e metafisico. Sostanza che, nella sua costituzione materica, è condizione soggetta al moto del tempo. Una perfetta stasi parrebbe in antitesi col piano fisico, poiché ogni atomo o subalterna particella comporta un continuo, impenetrabile rimando ad altro movimento come, del resto, suggeriscono da sempre pianeti e stelle. E qui la scienza, anch'essa ormai protesa nella ricerca della Verità, nella pretesa di una tangibile contiguità con l'ultraterreno, segue un suo corso attraverso le nuove frontiere intraviste in buchi astrali e particelle elementari. Se da una parte constatiamo il movimento e la sua ciclicità rigenerativa per mezzo della trasformazione, dall'altra si palesa la sua negazione col fluire del pensiero libero da schemi spazio-temporali. L'ideale ingenerato, proprio per il suo patrimonio attinente all'immateriale nella condizione fisica, è accesso e condizione di mimesi del piano metafisico, ma ogni rappresentazione sul piano fisico è idealizzante e, se strutturata, produce l'ideologia, la quale induce ad una concezione di vita che si pone come dottrina e comporta, in ogni caso, esiti nefasti, devianti, tali da indurre in errore. La meditazione spirituale, ma anche la riflessione laica generante, non quella speculativa, quindi l'uso del pensiero in ragione della sua forza creativa, poiesis evocativa e compenetrante la condizione fisica, ha una valenza antica e tuttavia sopravvissuta nei rituali sciamani, ma anche in poeti degni di essere reputati tali, poiché non compiono azioni troppo dissimili. Alcuni poeti si aggirano in una coltre dogmatica, teocrate o tecnocrate-virtuosistica che sia, permanendo nell'errore, mentre altri, al pari dello sciamano nella possessione che li infonde, sono più esposti alla destabilizzazione della polivalenza frammentaria riportata sulla Verità. La poesia testimonia istanti, frazioni di Verità di per sé incongrue e fuorvianti, poiché limitata nella manifestazione temporale, nonostante sia ancestrale accesso alla sostanza e ai suoi distinti piani configuranti la Verità medesima. Il verso è un'autentica manifestazione dell'assoluto con un inizio e una fine, come tale disorienta in quanto soggetto all'immanenza dello spazio-tempo che ne altera l'originaria perfezione, ove l'istante non è più parte integrante dell'eterno, ma frazione di tempo scandito dal piano fisico. La poesia non è un testo fruibile in qualsiasi momento o condizione".
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Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica
"La poesia è. In quanto tale, è compenetrabile solo in estemporaneità segnate dal testo attraverso la vibrazione del suono. L'istante di Verità proiettato nella poetica diviene
quindi alterato, rapportandosi alla dimensione temporale. Tuttavia esso può essere immortalato attraverso il suono, che rende atemporale quanto sedimentato nella memoria universale, il qualcosa che ci comprende e la poesia percepisce in non luoghi diversamente non rapportabili al piano fisico. Nella tradizione orale permane traccia della sacralità del suono. L'originario "Canto" di Orfeo, lo sguardo alla volta di Euridice che resta sospeso nel momento tra luce e tenebre, anabasi e catabasi dell'istante poetico di ricerca che riporta ad una Verità frammentaria, sono mito e fondamento della cultura. Come la memoria, attraverso odori e suoni, agisce liberata da ogni schema preposto conducendo all'essenza dei ricordi svincolati da strutture, a partire dal tempo, la poesia, per altro verso, costituisce identità liberate occultandole, dei non luoghi in cui la memoria svincolata tornerà a condurci attraverso i primigeni sensi, mentre tatto, gusto e vista permangono più intimamente legati al piano fisico, seppure non esclusivamente. Udito e olfatto costituiscono gli archetipi sensi tramite i quali, se ancora debitamente sviluppati, si è in grado di percepire oltre la propria conformazione e quanto ci circoscrive, sono dunque sensi estesi, protesi verso l'oltre. La luce, assurgendo ad elemento simbolico metafisico, è la visione, non il visibile, che pervade tanto lo sciamano quanto il poeta. La visione è guidata da suoni ed odori, mentre la poesia genera identità liberate preposte alla visione. La luce, pertanto, è sì visibilità nella costante spazio-tempo, ma, altrove, è anche la compenetrazione, stato di alterazione psico-fisico, quindi il predisporsi all'oltre. Il dualismo luce-tenebre riconduce ad ataviche paure genesi di moralismi, ma in realtà è riconducibile a ciò che è visione o altrimenti è visibile. La contrapposizione è condizionata dall'osservazione del piano fisico con rimandi allo stato onirico, altra esperienza di alterazione dei sensi ma che, tuttavia, in quanto riprodotta nell'inconscio, resta legata all'istinto di rifiuto della morte.
Ogni riferimento ad un aldilà suddiviso tra inferno e paradiso non è che un paradigma costituto sull'ordine fisico, un errore che sancisce la verosimiglianza tra il qui e l'oltre, piuttosto che interdipendenze nella celata contiguità sostanziale. Talune religioni che individuano nella reincarnazione la realizzazione su differenti piani volti al metafisico, sono più attinenti ad una rappresentazione di condizione di visione o mancata visione che riconduce al visibile, dunque al piano di provenienza. Solo un approccio eroico verso la vita, vero inferno vincolato al piano fisico nell'impenetrabile consapevolezza dell'oltre, è in grado di ribaltarci dignitosamente verso il nulla, ma questo non determina un'originaria malevolenza, bensì condizione d'iniziazione. L'insegnamento del poema omerico, dunque, resta sempre un valido punto di riferimento. La Commedia dantesca, tuttavia, meglio palesa la percezione fisica dell'aldilà attraverso l'ipogeo delle terree viscere dell'inferno e l'apogeo montagnoso del purgatorio".

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Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica
"Allegoria di un viaggio nell'oltre del poeta, o piuttosto dello sciamano, che vi si annuncia nella "selva oscura". Viaggio che si formula nella percezione di dimensione,
cognitiva e avallata dalla presenza intellettiva di Virgilio. Contrappasso che riconduce a retaggi medievali, ma anche al karma nella sua istanza evolutiva. Con l'approssimarsi del paradiso subentra l'elemento della realizzazione del sé, ossia Beatrice che, nell'ascensione tra i cieli, conduce alla percezione originaria, dove il visibile è soggiogato dalla visione. "La novità del suono e ‘l grande lume" sono altresì sigillo dell'empireo, memoria cosmica svincolata nella visione. Qui ogni consistenza diviene sempre più percezione di essenza, entità parzialmente rivelata, dove la "candida rosa" dei beati esplicita i sensi olfattivi. Un viaggio che giunge prossimo al punto di contiguità con l'assoluto, ove l'energia fonde e la visione stessa diviene accecante e indicibile, "amor che move il sole e l'altre stelle". Oltre vi è l'impenetrabile, l'insondabile, la perfetta stasi dell'istante compiuto in eterno, Verità a prescindere da ogni condizione. In sintesi, a proposito dei sensi, potremmo ricollegare il tatto e il gusto a funzioni di con(tatto), dove la memoria ha un corso perlopiù vanificato nella transizione dell'evento ed assume collocazione rievocativa. Essi sono mediati, nei picchi percettivi, da una mistica carnale attraverso una relazione dionisiaca. La vista, nella sua funzione di percezione della dimensione, predispone perlopiù una memoria cognitiva, elaborata nell'esercizio intellettivo. L'olfatto, percezione di essenza, è un'elaborazione inconscia e pervadente, dove la memoria è svincolata e la mediazione è incondizionata. L'udito è una funzione, tra l'altro, di equilibrio, trait d'union primigenio nella vibrazione siderale. Sensi che, in ogni caso, costituiscono la sfera di percezione poetica relativamente all'inclinazione individuale ed il sentire interiore, quanto i poeti dovrebbero avere connaturato. La predisposizione alla comprensione dell'animo porta il poeta ad assumere un'ulteriore facoltà percettiva: la vibrazione interiore, altresì suono, funzione incondizionata che conduce il poeta alla sublimazione. I poeti, come gli sciamani, hanno quindi un sesto senso, qualcosa che li rapisce all'esperienza dell'oltre. Non c'è poetica senza una cognizione ontologica. Non c'è r(e)sistenza se la poesia viene meno dal quotidiano. Viviamo sostituendo le nostre parti con quanto ci ha preceduto, ricedendo alla terra, fin da subito, l'acconto di un debito in sospeso tramite i nostri escrementi. Se resterà qualcosa a noi riconducibile è il pensiero, tanto sul piano fisico attraverso la scrittura, quanto su quello metafisico attraverso la vibrazione, sintesi, peraltro, ben rappresentate nel mito di Orfeo. Il noumeno diverrà fenomeno nel compimento del nostro transito. Resterà la nostra più intima verità che, se autentica, saprà ovunque e comunque capitalizzare altra Verità. Disobbediente ad una coscienza relegata all'habitus, oso ancora declamare arrancando al buio: Credo nel nulla:/ l'incomprensibile che non è,/in ogni inconsistente particella/sopra cui sanguina il cervello/per inesplicabile inconcretezza./Credo alla sua perenne,/impenetrabile atemporalità/e la più giovine saggia età./Credo nel selvaggio istinto,/a chi più nulla chiede/e niente dirmi saprà./Credo nelle aguzze,/roventi affilate spade/del lupo assassino,/in ogni creatura/sensibile e affamata".
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22 commenti:

  1. Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale - Scritto da Marco Onofrio (1)
    La poesia è la chiave capace di aprire i cuori per liberare tutti i colori che contengono: capace di scardinare la resistenza opaca e ottusa della materia, per sviscerarne il segreto più intimo, il mistero profondo che trattiene. Tutte le cose sono “piene di dei”, pensavano gli antichi greci. Parafrasandoli, potremmo dire che son piene di musica: nel senso che è la musica il “vettore” maggiormente in grado di tradurre, ai nostri sensi limitati, le vibrazioni della loro energia fondamentale. Tutto l’universo palpita e respira come un organismo - se ascoltiamo bene possiamo sentirlo.
    Chi è dunque il poeta? Colui che può riconoscere in Orfeo il suo prototipo eterno. Orfeo: il mitico cantore tracio che ammansiva le fiere e incantava la natura con la sola forza della voce e l’armonia suprema della sua musica. Il poeta, nel ricordo del mito che incarna, è chiamato ad essere una specie di mago, un “orfico seduttore”: uno insomma che “ci prova” con la realtà, che tenta di sedurre le cose, di indurle a donarsi, a concedere il proprio nocciolo di energia fondamentale, la scintilla di divinità che custodiscono gelosamente alle radici del loro mistero. Perché la realtà, per quanto “bisbetica”, può essere felicemente, benché non facilmente, “domata”: tutto dipende da come il poeta sa esercitare, con quali e quante arti, questa sua intensa e assidua opera di seduzione. Come una donna, la realtà non resta indifferente alle attenzioni: così, tranne che in rari casi, finisce per concedersi. A chi la guarda meglio. È un attimo improvviso che, nell’offerta del suo portato, si staglia con l’impronta di un miracolo. Come una bacca vergine e deiscente: la scorza si apre da sola, quando meno te lo aspetti, e lascia baluginare - tremenda nel suo splendore - la “cosa” imperscrutabile che accoglie, cioè il mistero stesso che la sostanzia. È un attimo fuggente, certo, ma basta a fare della poesia quello che essa realmente è: epifania, scintilla di rivelazione. È allora che il poeta varca la “soglia epifanica”, ovvero il suono del silenzio, il confine dell’indicibile. Sono “attimi eterni” che tutti attraversano, non solo i poeti (nella misura stessa in cui la poesia è qualcosa che tutti ci riguarda): istanti che a loro volta ci attraversano, in cui ciascuno di noi sfiora la comprensione di tutto, riprendendo contatto, nelle proprie, con le radici interne del cosmo, con l’invisibile, con l’assoluto. È allora che “qualcosa” ci passa attraverso, nel mentre stesso che nasce, sgorga e sale dall’interno più profondo, dal cuore originario del nostro essere pensante: parole, immagini, echi, aloni, alchimie, musiche… catene di ritmi e di suoni… Il poeta è “semplicemente” colui che non lascia passare questo “qualcosa”, e che anzi vuole coglierlo e fermarlo, perché anzitutto sarebbe un peccato disperdere tale e tanta ricchezza originaria; poi perché precisamente a questo lo chiama la propria natura costitutiva, la propria vocazione: non potrebbe comunque esimersi o fare altrimenti - e non sa spiegarne il perché!

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  2. Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale - Scritto da Marco Onofrio (1)
    Il poeta è dunque, nelle diverse fasi del suo procedimento conoscitivo, rispettivamente “raccoglitore”, “decriptatore” e “comunicatore” di epifanie. È un’energia immensa, sconfinata e, con ciò, pericolosa, quella che lo pervade. È la forza originaria dell’essere. Egli cade in una sorta di trance creativa, come uno sciamano quando entra in comunicazione con gli spiriti. Varcata la “soglia epifanica”, il poeta non sa più - letteralmente - quel che dice: sragiona, straparla, come un folle un invasato un visionario. Nessuna Ragione è più in grado di contenerlo, se non quella oscura e occulta cui egli deve obbedire, e che gli “detta dentro”: la ragione che la poesia stessa autodetermina e a cui, riconoscendola, consapevolmente vuole appartenere. Scrive Giordano Bruno negli Heroici furori: «La poesia non nasce da le regole se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalle poesie”. E tuttavia il poeta continua a usare il linguaggio, i verbi dell’umana comprensione. È il “furore poetico” teorizzato nello Jone platonico, laddove i poeti appaiono come “ventriloqui della divinità”, tali cioè che noi, “udendoli, ci avvediamo che non essi, che sono fuori di mente, dicono così mirabili cose, ma Dio stesso, il quale per bocca loro parla a noi”. Il poeta dunque come “anello di mezzo” tra Dio e uomo; cioè, in quanto tale, come “essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato da un dio, se prima non sia uscito di senno, e più non abbia in sé l’intelletto». Concetti che hanno segnato, nell’arco dei secoli, lo svolgimento della tradizione “orfica” della poesia, intesa quest’ultima alla maniera di Orfeo, come “musica anzitutto”, oscuro turbine di suoni, onda ipnotica, sortilegio incantatorio, espansione lirica dei confini dell’individuo. Si pensi ancora a Shelley, grande romantico inglese, che nella sua Difesa della poesia definisce i poeti come “ierofanti di un’ispirazione non appresa; specchi delle ombre gigantesche che il futuro getta sul presente; parole che esprimono ciò che essi non intendono; trombe che chiamano alla battaglia e non comprendono ciò che ispirano; influenza che non è mossa ma muove”. E tuttavia: non sempre il dettato poetico obbedisce a questo “entusiasmo”. Ci sono casi in cui la cosiddetta “ispirazione” abortisce, o non riesce al meglio, perché è impura, e il momento creativo disturbato o non opportuno: nessun miracolo è scontato! Più spesso si parte da un grumo informe di materia e da lì, pazientemente, si procede con gli strumenti di un accanito e incontentabile labor limae: correggere e correggere senza posa, alla ricerca della migliore resa espressiva. Anzi: è rarissima la poesia “sacramente necessitata”, che nasce già bell’e pronta, perfetta così com’è.
    Il poeta non può rinunciare mai del tutto alla propria razionalità, nello stesso istante in cui si apre al massimo volume della fantasia. È un po’ come Teseo che si addentra nel labirinto per affrontare il Minotauro: ha bisogno del filo di Arianna (cioè della ragione) per uscirne vivo.
    Anche per questa capacità di mettere in contatto e coniugare la parte razionale e quella irrazionale, contribuendo al riordino delle energie - e dunque agli equilibri mentali e vitali dell’uomo - la poesia è un’arte completa, meravigliosa e soprattutto utile a ciascuno di noi, poeta o non.
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-angolo-della-poesia/item/11566-della-poesia-soglia-epifanica-e-musica-essenziale.html)

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  3. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 -
    Come affrontare il mito di Orfeo? Suggerisce Kerényi: “L’unico modo giusto di comportarsi nei confronti della mitologia è lasciar parlare i mitologemi per se stessi e prestar loro semplicemente ascolto”. E Nietzsche: “Il mito vuol esser sentito intuitivamente come un esempio unico di una universalità e di una verità che hanno lo sguardo fisso sull’infinito”. Per intanto, dunque, disponiamoci all’ascolto puro e semplice della fabula, nelle sue essenziali informazioni.
    Figlio di Apollo e della Musa Calliope, nato alle pendici del monte Rhodope (in Tracia), Orfeo canta e suona così dolcemente che non solo gli uomini, ma anche le belve e persino le piante e le rocce (rotolando) accorrono a udirlo. La sua melodia stregata valica ogni ostacolo, addolcisce ogni cuore, scioglie la ferocia e la tristezza del mondo. Orfeo conduce ogni cosa alla gioia. Al suo canto fiumi arrestano il loro corso per ascoltare, uccelli volteggiano a stormi, pesci guizzano dalle cupe azzurrità del mare. Orfeo cresce in Pieria, il Paese delle Muse olimpiche. Apollo in persona lo ammaestra nell’arte del canto e gli regala la lira di Hermes. La leggenda lo vuole partecipe alla spedizione degli Argonauti: più debole degli altri, egli non rema, ma detta la cadenza, funge da “capovoga”. Inoltre assolve un ruolo di sacerdote, essendo l’unico iniziato ai Misteri: scongiura i pericoli con rituali magici; durante una tempesta calma l’equipaggio e placa i flutti col canto; riesce a trattenere i compagni dalla malìa delle Sirene, superandole in dolcezza. Ama, riamato, la ninfa Euridice. Il giorno stesso delle nozze Euridice è morsa da un serpente velenoso e muore. Dopo averla pianta a lungo, Orfeo tenta di scendere nell’Ade per riaverla con sé. Con la sua arte sublime commuove il traghettatore Caronte. Al suo passaggio le Danaidi, Tantalo e Sisifo possono sospendere per un attimo l’espiazione della condanna. La ruota di Issione si ferma, le Erinni rimangono interdette, piangono le anime che si radunano intorno a Orfeo. Ma questi procede spedito, senza curarsi di ciò che lo circonda, facendosi largo fra le ombre. Giunge infine dinanzi al trono di Ade e Persefone, cui significa il motivo che lo ha spinto fin laggiù. Persefone si lascia commuovere dalla sua struggente melodia e sussurra parole pietose all’orecchio del consorte, la cui testa abbozza un assenso: Orfeo potrà riottenere l’amata, a patto però di non voltarsi a guardarla prima della luce, secondo la legge degli Inferi, dove nessuno sguardo, ma solo la voce è consentita. Intraprende così la strada del ritorno, seguito da Euridice accompagnata da Hermes.
    (Mercoledì, 01 Luglio 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/14645-il-mito-di-orfeo-1.html - / Lunedì, 01 Ottobre 2007 04:00)

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  4. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 - 1.
    A questo punto ci sono due versioni: una attesta che Orfeo riesce a riportare a casa Euridice e a vivere felicemente con lei il resto dei suoi giorni; l’altra che, giunto alla porta dell’Ade e ormai ad un passo dalla luce della salvezza, Orfeo si lascia cogliere dal dubbio e dall’impazienza, non resiste più e si volta a guardare, contravvenendo così al veto degli déi. “Euridice!” egli grida protendendo le braccia, ma le sue mani afferrano non altro che aria fredda mentre la figura velata svanisce, sottratta da Hermes, come inghiottita - e stavolta per sempre - dal silenzio e dall’oscurità. Orfeo tenta invano di inseguirla e di tornare indietro: Caronte non lo lascia più passare. Da quel momento cade un’ombra dionisiaca sulla sua essenza apollinea. Sulla morte di Orfeo si contano diverse varianti. In una è Zeus che lo trafigge col suo fulmine per punirlo di aver educato all’orphikos bios, di aver iniziato ai misteri e all’origine delle cose e degli déi, gli uomini traci presso una caverna alla foce del fiume Stimone. In altri casi viene assalito e dilaniato dalle donne tracie, offese perché dopo aver perduto Euridice egli si astiene dall’amore, oppure dalle Baccanti sul monte Pangeo, pronte a riconoscere in lui l’avversa natura apollinea. La testa, decapitata e inchiodata sulla lira, fluttua per fiumi e per mari continuando miracolosamente a cantare. Smirne, Libetra, Dione o Lesbo: dovunque si ritenga sepolto Orfeo, gli usignoli cantano più dolcemente e più forte che altrove. La sua lira, che nessuno è degno di ereditare, viene posta da Zeus fra le costellazioni.
    (Mercoledì, 01 Luglio 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/14645-il-mito-di-orfeo-1.html - / Lunedì, 01 Ottobre 2007 04:00)

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  5. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 1 - 2.
    Questa la fabula.
    Dovremo ora interrogarci sui suoi significati. Quali sfere dell’esperienza umana il mito di Orfeo sia deputato a rappresentare. Di cosa sia emblematico, in termini astratti, a prescindere dalle singole incarnazioni. Cosa infine possa dire e cosa effettivamente abbia detto alla cultura moderna. Orfeo è personaggio di un mito sempre ricorrente all’attenzione della cultura occidentale, prossimo alle questioni tecniche e teoriche del fare creativo, baluginante dal vivo delle riflessioni sul senso dell’arte, in particolare di poesia e musica. Da Platone a Pindaro, Virgilio, Ovidio, Poliziano, Monteverdi, da Lope de Vega a Calderon de la Barca, Lully, Gluck, Listz, da Nerval a George, Mallarmé, Nietzsche, D’Annunzio, Apollinaire, Campana, da Kokoshka a Rilke, Cocteau, Anouilh, Camus, Williams... è praticamente sterminata la schiera degli artisti e dei pensatori che in ogni tempo, sedotti dal fascino di una delle figure più oscure e cariche di simbolismo della mitologia ellenica, hanno lasciato una loro interpretazione o rielaborazione, talora personalissima; oppure orientato le loro opere secondo schemi e modi di pensiero che potremmo definire “orfici”; oppure, più semplicemente, utilizzato l’immagine o il nome di Orfeo quale emblematico supporto ai loro enunciati critici o prodotti artistici. Il cantore tracio diventa, così, ispiratore e quindi testimone di un certo modo di concepire ed esercitare la pratica creativa, giacché - scrive Franco Ferrucci - “è poderosamente e talvolta elaboratamente dialettico. La semplicità gli è sconosciuta, anzi c’è in lui nei riguardi della semplicità una marcata distanza, quasi fosse un patto debilitante”. L’artista “tormentato e insoddisfatto è molto spesso un Orfeo. Chi non ricorda l’ira di Michelangelo contro il Mosè (la cui statua era certamente un autoritratto orfico), e le accorate deplorazioni di Dante sulla difficoltà di descrivere l’oltremondo divino?” Questo tipo di artista smania per una certa grandeur di tono espressivo, che si traduce nella possibilità ultima e mai sopita di accarezzare una visione totale del mondo (Dino Campana, autore dei Canti Orfici, scrive: il “sogno della vita in blocco”), quasi obbediente a una volontà egemonica di conquista, di dominio cosmico sugli elementi. Ed ecco allora il rischio di una possibile caduta “nel turgore e nell’oscurità”, dove solo il genio, eventualmente, può risollevarlo. Come accade in Wagner, che “è un ottimo ritratto di Orfeo, del quale non gli manca neppure una caratteristica - compresa la tendenza malinconica, e compreso il serrato rapporto con la morte”. (Mercoledì, 01 Luglio 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/14645-il-mito-di-orfeo-1.html - / Lunedì, 01 Ottobre 2007 04:00)

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  7. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2.
    Secondo Charles Segal (che ad Orfeo ha dedicato un ampio e suggestivo saggio) gli elementi fondamentali del mito configurano un triangolo costituito da "arte", "amore" e "morte".

    "Il significato del mito cambia a seconda di quali diversi elementi si pongano alla base del triangolo: amore-morte, amore-arte, arte-morte. Per un verso Orfeo incarna la capacità dell'arte, della poesia, del linguaggio - "retorica e musica" - di trionfare sulla morte; il potere creativo dell'arte si coniuga col potere creativo dell'amore. Per altro verso il mito può simboleggiare lo scacco dell'arte di fronte alla necessità ultima, la morte."

    Il prodigioso "poeta archetipo", in grado di smuovere col suo canto l'intera natura, rappresenta la forza dei processi vitali, e il sigillo civile della presenza umana nel cosmo, in lotta contro l'abisso tenebroso della morte; e dunque, rispetto all'imperio di quest'ultima, la sacra alleanza di "arte" e "amore" - dove meglio s'imprime il segno del passaggio dentro il tempo. La versione primordiale del mito "simboleggia la funzione propria della poesia di suscitare la rispondenza simpatetica fra uomo e natura", ovvero la "contagiosa gioiosità del canto all'unisono con essa". Il potere orfico può sprigionare, in consonanza cosmica, la melodiosità racchiusa nella natura, il canto degli elementi, la musica delle cose. Ma poi il mito, nella sua evoluzione storica, si vena di una nota di "tragismo".
    Orfeo, scrive Rosalma Salina Borello: "impara da Euridice morta ad accogliere la morte, ma anche a ritrovarla nelle cose, in tutte le cose che vogliono essere dette nella loro transitorietà."
    (Sabato, 01 Agosto 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-2.html)

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  8. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2. 1.
    Il compito del poeta è allora quello di "dire le cose", celebrandole non loro essere "di passaggio", nella loro terrestrità, nel raggio in cui balenano per un attimo, sospese sull'abisso: ricomporre e commemorare le macerie del tempo e della storia, attraverso il potere salvifico della parola. Orfeo si fa dunque figura di sincretismo, che - secondo l'interessante proposta della Salina Borello - starebbe ad indicare una "terza via" dello spirito greco, oltre le opzioni bipolari di Apollo e Dioniso.

    Il mitico cantore assomma infatti in sé due aspetti contrastanti e complementari della cultura greca: l'aspetto apollineo e quello dionisiaco. Come Apollo è poeta e taumaturgo, in sintonia con la natura, o meglio, con l'anima cosmica che plasma la natura e le sue leggi, senza esserne asservita. È ispiratore delle scienze, perché attinge all'origine di tutte le cose e ai principi di cui esse sono le emanazioni. Non è però, come Apollo, esente dalla conoscenza del dolore e della morte, ma partecipa, come Dioniso, al dramma cosmico.

    Come una luce che oltrepassi l'ombra senza negarla, con-tenendola, assorbendola in sé. Infatti il lato oscuro, tormentato, orgiastico dei misteri di Dioniso viene nell'orfismo trasceso e decantato nel culto apollineo della luce vivificante, della parola profetica, della musica.

    Il mito si approfondisce, si universalizza, diventa ambivalente: un fulcro catalizzatore di energie simboliche, rappresentativo dell'umana complessità.
    Scrive Segal alla fine del suo libro, quasi compendiando la debordante polivalenza che assume Orfeo per irradiazione, attraverso letture sovrapposte e stratificate, nel tempo e nello spazio:

    "Il mito di Orfeo ha offerto all'artista creativo la possibilità di percepire la propria arte come una magia capace di sfiorare corde ricettive nella totalità della natura, e di porlo in contatto col fremito della vita allo stato puro, o del puro Essere. Il mito di Orfeo è il mito dell'importanza suprema della missione affidata all'arte. È il mito del coinvolgimento totale dell'arte nell'amore, nella bellezza e nell'ordine e armonia della natura, il tutto sotto il segno costante della morte. È il mito della magia dell'artista, del suo coraggioso, disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell'universo, e della sua speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti noi il suo viaggio."
    (Sabato, 01 Agosto 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-2.html)

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  9. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 2. 2.
    Sono cinque le connotazioni principali che assume la figura mitica: Orfeo viaggiatore e pioniere, che partecipa alla spedizione degli Argonauti; Orfeo innamorato, che cerca e piange la sua Euridice perduta; Orfeo iniziato, che fonda i culti misterici; Orfeo poeta, che incanta con la sua musica tutto l'universo; Orfeo vittima sacrificale, massacrato dalle Baccanti. Ma forse spetta al "poeta" la palma della maggiore e più suggestiva rappresentatività, in grado cioè di riassumere e racchiudere in sé tutte le altre vesti; sicché Orfeo è "il cantore per eccellenza, il musico e il poeta" (Grimal), che "si rivela in ciascuno degli elementi della sua leggenda come il seduttore a tutti i livelli del cosmo e della psiche: cielo, terra, oceani, inferi, subconscio, coscienza e sovracosciente", che "dissipa il corruccio e le resistenze, ammalia" (Chevalier). "Forse egli", conclude Chevalier, "è il simbolo del lottatore che è capace solo di addormentare il male, ma non di distruggerlo, e muore egli stesso, vittima della propria incapacità di superare la propria insufficienza. Su un piano superiore, egli rappresenterebbe il perseguimento di un ideale al quale si sacrifica solo a parole, ma non di fatto. L'ideale trascendente non è mai raggiunto da colui che non ha radicalmente ed effettivamente rinunziato alla propria vanità e alla molteplicità dei desideri (...) Orfeo non riesce a sfuggire alla contraddizione fra aspirazione verso il sublime e verso la banalità, e muore per non aver avuto il coraggio di scegliere". È, comunque, l'uomo che viola l'interdetto degli déi, che osa guardare l'invisibile, pagando di persona tutta l'imprudenza del suo "gesto folle". Linforth interpreta Orfeo come figura di artista-mago, Dodds ne fa un "prototipo degli sciamani".
    (Sabato, 01 Agosto 2009 01:00 - Continua)
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-2.html)

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  10. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3.
    Orfeo continua di lontano a seminare il proprio richiamo, ad allungare silenziosamente il proprio sguardo come un arcobaleno sopra distese di secoli, ad evocare a sé generazioni di sempre nuovi adepti. Come ad esempio, in Italia, molti dei cosiddetti "petrarchisti dell'Ermetismo", o come i giovani poeti della scuola neo-orfica milanese degli anni '70. Ma anche a livello teorico, nel campo della scrittura saggistica, della critica letteraria. È il caso del francese Blanchot, che ne L'espace littéraire, teatro di una riflessione filosofica esercitata "in fieri" sul terreno della letteratura come esperienza, fonda sul mito di Orfeo e sul tema del suo sguardo le basi della propria estetica.

    Per Orfeo che scende verso Euridice (il poeta che avvicina la Poesia) l'arte è la potenza grazie a cui si libera l'"essenza della notte". Euridice è il confine, il limite estremo. "Nascosta sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre" è il punto interiore ed essenziale verso cui tende il desiderio dell'artista. Il "proprio" di Orfeo (ciò che lui desidera) è avvicinarsi a questo punto scendendo nelle profondità abissali di se stesso, per riportarne con sé il dono e farlo emergere in superficie, verso il "grande giorno" (Campana direbbe "il più chiaro giorno") dell'opera, della forma, della consistenza. Ma egli "può tutto, fuorché guardare in faccia questo punto, fuorché guardare il centro della notte". La legge impone che l'opera possa nascere solo quando l'artista non persegua deliberatamente "l'esperienza smisurata della profondità", che può rivelarsi solo con la dissimulazione. Orfeo non accetta, non può accettare questa legge: vuole guardare ciò che deve essere dissimulato, e vuole vederlo proprio in quanto invisibile, estraneo ad ogni intimità e proibito alla conoscenza. L'errore di Orfeo sembra allora essere nel desiderio che lo porta a possedere Euridice, mentre il suo solo destino è cantarla. Desiderio e canto necessitano della distanza ed escludono il possesso. Tuttavia Orfeo può essere davvero se stesso solo "perdendo", se stesso ed Euridice: solo volgendo il capo, perché questo è il solo modo per avvicinarsi al centro della notte ed essere poeta. Guardando Euridice Orfeo obbedisce all'impulso profondo dell'opera, all'impaziente desiderio di giungere alle radici oscure del proprio canto, a costo di smarrirne la voce e l'identità. Questo impulso è l'ispirazione: "L'ispirazione dice la rovina di Orfeo e la certezza della sua rovina, ed essa non promette, in cambio, la riuscita dell'opera". L'opera tocca con essa la propria fragilità e si scopre inessenziale, perciò le resiste così spesso e così tenacemente.
    Domenica, 13 Settembre 2009 20:34
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-3.html)

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  11. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3. 1.
    Per venire alla luce, l'opera esige da Orfeo (da ogni poeta) la negazione dell'atto che invece egli "deve" compiere, afferrato per i capelli da un desiderio notturno e originario. Riallacciandosi al discorso di Blanchot, Detienne pone il mito di Orfeo all'origine della scrittura, cioè del bisogno di fondare l'esperienza del mondo attraverso la formalizzazione della parola scritta. Orfeo sembra splendere all'incrocio stesso delle due potenze originarie: voce e scrittura. C'è anzitutto il "canto di Orfeo che viene prima della parola che trascina attorno a sé gli animali del silenzio, le vite più mute. Ma la scrittura è già là, abitata da questa stessa voce; e si avverte un tumulto di libri, di discorsi che si scrivono attorno al canto di Orfeo". La voce di Orfeo è anteriore alla parola articolata, è la musica prima del verso, il canto senza parola. Il canto di Orfeo sgorga come una magia originaria e si racconta negli effetti che produce prima ancora che nel suo contenuto, e innanzi tutto nel suo valore centripeto, che riunisce attorno alla voce gli esseri animati ed inanimati della terra, del cielo e del mare. Ma è Orfeo, ancora lui, ad aver portato agli uomini la scrittura, dopo averla imparata dalle Muse: egli è pertanto il fondatore della cultura, del sapere enciclopedico, della civiltà. È il canto di Orfeo che "produce la scrittura; si fa libro; si scrive in inni e magie, cosmogonie, discorsi teogonici e grandi composizioni che comprendono sei generazioni di potenze divine", giacché "la magia dei libri è potente tanto quanto il canto e trionfa sulle deleterie potenze dell'oblio"; anzi: "chi possiede la scrittura e legge Orfeo non conoscerà mai la morte propria degli altri". Nell'orfismo religioso c'è dunque la scelta consapevole della scrittura come strumento soteriologico di rinascita spirituale. La salvezza si ottiene anche attraverso la letteratura; si conquista attraverso la scrittura che coincide assolutamente con il genere di vita orfico, una scrittura che esprime il trionfo di Orfeo sulla morte e sull'oblio. La "voce scritta" e la "scrittura cantata" di Orfeo aspirano, nella loro complementarità, a rendere il tempo circolare, per sciogliere la stretta dei suoi lacci, collegando Dioniso ad Apollo: ovvero, le dinamiche della dissipazione a quelle della creazione, la tenebra alla luce, la dismisura alla misura, la morte alla rinascita. Infatti, secondo la psicanalisi, "la discesa agli inferi alla ricerca di Euridice è un desiderio di ritorno al seno materno". Orfeo "sublima la sua libido incestuosa nei canti con cui placa Cerbero, simbolo della resistenza contro l'incesto": e "questo trionfo fonda a un tempo la sua potenza e la sua colpevolezza". Lo smembramento ad opera delle Baccanti è infine il "simbolo di una castrazione consentita".
    Domenica, 13 Settembre 2009 20:34
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-3.html)

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  12. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 3. 2.
    Ma chi è Euridice? È la "sposa di tenebra" di Orfeo: la sua stessa zona d'ombra. Secondo Max Müller i nomi che cominciano in uru in sanscrito e in euru in greco sono quasi sempre nomi mitologici dell'aurora e del crepuscolo. Euridice, come Eurifea (madre di Elio) o Euripile (figlia di Endimione) è uno dei nomi greci dell'aurora. Il nome di Orfeo deriverebbe dal sanscrito ribhus, che significa cantore o poeta: nei Veda il termine sanscrito arbhu è usato come epiteto di Indra e designa il sole. Euridice rappresenta il punto di passaggio tra la luce e l'ombra, tra il giorno e la notte: in entrambi i sensi, sia quindi come crepuscolo, sia come aurora. L'ultima luce del crepuscolo viene uccisa dal morso del serpente, vale a dire: inghiottita dalle fauci della notte. Euridice muore e discende nelle regioni infernali. Orfeo (cioè il sole) la segue, discendendo oltre la linea di confine, all'orizzonte. Laggiù Orfeo riesce a riconquistare Euridice: colei che, in risalita, sarà ormai la sua stessa aurora. Adesso è Euridice che lo segue. Orfeo che si volta a guardarla, nonostante il divieto, è il primo raggio di sole che uccide l'aurora, dissolvendo in piena chiarità la sua soglia umbratile e confusa. Ma perché Orfeo non sa resistere alla tentazione dello sguardo? Perché proprio alle porte del giorno non può rinunciare alla sua zona d'ombra? Quasi colto da folle impazienza d'amore: "subita incautum dementia cepit amantem", scrive Virgilio nelle Georgiche. Un eccesso d'amore che porta l'amore a perdersi. Ma è un'emergenza ancora più irresistibile di un desiderio erotico. Un ritorno alla luce che fosse obbediente al divieto infero, privo cioè di sguardo notturno, porterebbe sì Orfeo a riavere Euridice viva, in carne ed ossa, ma a perderla per sempre come sposa di tenebra. E uno come Orfeo non può rinunciare alla sua zona d'ombra: ne andrebbe della sua stessa capacità di cantare, di essere poeta: quindi, di essere se stesso. Osando volgere il suo sguardo di conoscenza, cioè di possesso, sul regno oscuro di Thanatos da cui sta emergendo insieme ad Euridice, Orfeo tenta un'impossibile sintesi di opposti: affermare il mistero della notte alla chiarezza del giorno, che ovviamente non può accettarlo. E allora perde Euridice due volte: come ombra e come luce. E tuttavia Orfeo per un istante ha guardato. E ha visto. L'attimo che lo separa dai due regni in cui si inscrive il reale illumina per lui un'altra regione, a metà strada tra l'ombra e la luce, un terzo regno. E allora perché Orfeo guarda indietro? Orfeo guarda indietro perché è un poeta, e non può non obbedire al suo destino, alla sua natura, alla sua missione. Il poeta è un prometeico "ladro di fuoco", che ferma il lampo della luce e afferra il guizzo della vita, per salvarli dentro l'arca del suo scrigno, dentro la valva delle parole; è "colui che sa, nel luogo stesso della morte, riappropriarsi di un bene e darne ad altri il gioioso possesso, malgrado tutto". E infatti quello sguardo è il solo che possa, tra due mondi, consegnarci il reale e farlo accedere a un essere di linguaggio che, per parte sua, sarà per sempre preservato da ogni alterazione e da ogni minaccia. La letteratura salva e rende eterno non il reale in sé ma ciò che in esso si dà fuggevolmente, nella grazia dell'istante e al limite della sua perdita, come la sua essenza incorruttibile. È esattamente questa grazia che lo sguardo all'indietro rivela.
    Domenica, 13 Settembre 2009 20:34
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-3.html) (Continua)

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  13. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 4.
    Allo ‘sguardo di Orfeo' s'interessa anche Salvatore Lo Bue, che differenzia tra due tipi di poesia: il melos (assoluto incantamento musicale) e la pòiesis (forma di conoscenza). Custode e simbolo del primo tipo è l'originario Orfeo agamos (cioè solitario, senza Euridice) attraverso la cui voce gli déi ascoltano e rivivono l'armonia del principio, la nascita del mondo, l'infanzia dell'umanità.

    Egli conduce ogni cosa alla luce, poiché è poeta armonico, devoto a Helios, difensore del cosmo ermetico. Gli déi non lo temono poiché egli non osa metterli in dubbio e ha accettato di contrarre con loro un mutuo foedus di non belligeranza, tramato di menzogna alle spalle dell'uomo. Infatti, lo uccidono le Baccanti, istigate alla vendetta da Dioniso (dio dell'oscurità umana). Il secondo tipo di poesia pertiene all'Orfeo libero contro gli déi e umanizzato. L'umanizzazione di Orfeo segna la sua dolorosa e solitaria libertà di poietes, capace di una parola infinitamente meno suggestiva ma carica di pensiero, una parola che insegna agli uomini e rivela loro, oltraggiosamente, i segreti degli déi. Da scriba del cosmo ermetico Orfeo diviene figura della contraddizione, del principio tragico, del Logos. In entrambi i casi è figura di relazione tra Physis e Mytos: armonica prima, oppositiva poi. La differenza sta proprio nello sguardo e si gioca nel diverso esito (positivo o negativo) della catabasi in Ade. Nel mito di Orfeo la catabasi è una variante successiva (non attestata prima del VI secolo a.C.), che segna l'apparizione di Euridice e contraddistingue la nascita dell'Orfeo poietes. Affrontando la catabasi, l'Orfeo melico ottiene facilmente Euridice e tuttavia resta agamos, giacché la riporta alla luce senza conoscerla veramente e a prezzo della propria libertà, restando prono alle leggi degli déi. L'Orfeo poietes, invece, perde Euridice guardandola, e la perde proprio perché la guarda e in tal modo la conosce, contravvenendo al divieto degli déi che temono la parola libera e pretendono cieco il poeta. Questo secondo Orfeo rompe l'equilibrio fra Natura e Mito e svela il vuoto sinora celato nell'essenzialità del nome, cioè nella perfetta coincidenza fra essere e nome. È l'ipostasi del passaggio fra due epoche: il mondo del Mytos comincia a vacillare sotto i colpi spietati e spregiudicati del Logos. Il Mytos cerca di difendersi arroccandosi nell'ultimo eden, quello della catabasi con esito felice - non a caso la versione del mito di Orfeo in cui i Greci preferiranno continuare a credere.
    Domenica, 11 Ottobre 2009 01:00
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-4.html) (Continua)

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  14. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 4.1.
    La notte ermetica aveva originato il nome degli déi, quindi gli déi stessi. Principiati dal gioco poetico originario, gli déi si erano a loro volta posti come increato e assoluto principio di tutte le cose. Lo scriba che stava all'ingannevole gioco, il reggitore dell'universale menzogna, il compare degli déi, poetava a patto di negare se stesso in quanto creatore. L'Orfeo poietes, invece, comprende e svela che gli déi sono un'invenzione umana; non solo, ma arrischia sé e la parola nel punto originario di ogni nominare, nel fondamento stesso della creazione poetica, rendendola e rendendosi più consapevole dei propri mezzi. Il che significa accettare la nudità originaria, il rischio di trovarsi soli dinanzi al baratro della privazione, centrati nella propria essenza, pericolosamente liberi di pensare, senza più illusioni o false certezze, estranei per questo al mondo degli déi come a quello della maggior parte degli uomini che non tollera - al pari degli déi - la libertà difficile. Una nuova poesia, non religiosa ma umana, che non dà gioia ma semina l'alito scuro della disillusione, che mostra le verità contraddittorie dell'esistenza senza comporle in alcun rasserenante ordine, che osa parole illecite per dire l'uomo "sogno di un'ombra", fino ad esserne il compiuto e veritiero discorso. Lo sguardo di Orfeo segna dunque lo stacco fra due modi diversi di intendere obiettivi e modalità del fare poetico, il passaggio dalla svenevole acquiescente dolcezza del melos alla parola ruvida, scabra, densa di pensiero. È l'invenzione della tragedia, del disincanto, della libertà, della responsabilità individuale. L'uomo da solo dinanzi a se stesso e al proprio destino. Il poeta chiamato ad una nuova ‘sapienza epistemica' della propria arte. Non più irresistibile ammaliatore, non più scriba del Mytos, non più divino aedo delle origini. Questa nuova tipologia di poeta rappresenta lo sgorgare del Logos dal cuore stesso del Mytos (a significarne la crisi d'identità) ed incarna l'essenza della "poiesis platonica. Platone, che nel Simposio giudica con palpabile acredine il destino di Orfeo (è la prima voce autorevole a sostenere l'esito negativo della catabasi motivandolo con l'ignavia del cantore tracio, giudicato "fiacco nell'animo, vile nel canto, incapace d'azione"), preconizza l'avvento di una poiesis "pasa aitia", complessa e autocosciente, principio e termine di sé, ma soprattutto in grado di svegliare gli uomini dall'imperturbabile sonno delle favole, di insegnare loro grammata e sophien, parole e sapienza, verità. Tutto questo comporta l'apparizione di Euridice e l'imprudente gesto del suo sposo. Basta l'accorpamento di una costante mitica tradizionale come la catabasi in Ade a modificare i connotati dell'originario Orfeo agamos, a mettere a dura prova l'integrità del suo significato, o per lo meno a turbarne l'univocità, offrirne una possibile alternativa, d'ora in poi ineludibile.
    Domenica, 11 Ottobre 2009 01:00
    (Da: http://www.controluce.it/giornale/rubrica-cultura/item/14770-il-mito-di-orfeo-4.html) (Continua)

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  15. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 5.
    Nel mito "in effetti sono concepibili numerose combinazioni, ognuna delle quali produce una variazione di senso per modificazione interna o esterna, relativa o collegata all'una o all'altra delle unità costitutive", sostiene Jean Rousset nel suo prezioso studio su Don Giovanni. Con o senza sguardo, fiacco o dominatore, trionfatore o sconfitto, Orfeo ha continuato e continua a rappresentare, ad ogni modo, qualcosa d'imprescindibile, di non riconducibile alla singola interpretazione: il nucleo forte, l'unità costitutiva, l'invariante del mito.
    Qualcosa che Orfeo non potrà mai fare a meno di significare; sicché, astratto in chiave metastorica, Orfeo può dirsi "simbolo di ogni differente pensare e sentire l'origine della poesia". Dovunque il poeta, forte di una purezza disinteressata, ma non irresponsabile, rinunciando alle illusioni accomodanti e alle facili promesse, sappia recedere alla sorgente del proprio canto, laddove è necessario resistere alla terribilità dell'iniziale che baluginando sorge, nella divina saggezza dell'attesa, nella maturità del silenzio; dovunque egli sappia soggiornare nell'oscurità dell'indistinto che non conosce appigli, anelando alla luce del riscatto; dovunque egli sappia lavorare (come scrive Jean Cocteau) "molto in alto e senza rete di soccorso", tuffandosi nell'alterità più irreducibile alla misura di ciò che si conosce, attraversando universi di vuoto, desolazione, vertigine e silenzio; dovunque si appalesi il profondo valore umano e mondano (pur nell'aspirazione al trascendente) di una poesia incisa nella carne e nel dolore della vita; dovunque la nutriente forza del pensiero accenda e avvalori il fuoco dell'incanto, il misterioso potere del suono e del ritmo; dovunque la poesia sappia porsi come fondamento, di conoscenza e civiltà, come cifra di quel che è proprio dell'uomo, come rivelazione di ciò che all'uomo non compete, di ciò che l'uomo non raggiunge: è là che potrebbe apparire, da un istante all'altro, dal corpo stesso dell'arte che egli rappresenta, l'universale figura di Orfeo; là che la poesia sembrerebbe quasi miracolosamente scaturire dalla sua settemplice lira incatenata alle costellazioni del cielo, fino ad identificarsi con la melodia sacra, la ragione segreta, l'essenza più profonda e irraggiungibile di tutte le cose.
    In epoca moderna la figura di Orfeo è più che mai atta a rappresentare le molte zone d'ombra di un uomo che la cultura ufficiale, quella del consenso allo status quo, vorrebbe cinto di apodittiche certezze, oppure fondato sulla certezza dell'incerto, sull'accertamento di una crisi fin troppo nota, estesa a mito, banalizzata a luogo comune, in un dissenso facilmente controllabile perché previsto e anzi tollerato dal sistema, dalle stesse istituzioni del potere: l'ombra di quelle forze istintuali, di quella libido che è necessario reprimere e controllare, acciocché sia ancora possibile una civiltà. Ed è proprio nel nome di Orfeo che Marcuse stigmatizza l'eccedente sacrificio della libido imposto a ogni individuo nella moderna società capitalistica occidentale.
    Mercoledì, 11 Novembre 2009 17:27
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/33643-il-mito-di-orfeo-5.html) (Continua)

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  16. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 6.
    La disfatta e il trionfo del mitico poeta divengono "simboli della perdita e del tentativo di recupero dello spirito del canto da parte dell'uomo in un mondo di alienazione, di violenza e di esistenza spersonalizzata e mitizzata" (Segal). Il legame inscindibile tra parola e musica - scrive Enrico Fubini - trova allora la sua "vita autentica nel canto come fenomeno naturale, come espressione dell'uomo in quanto essere naturale, non ancora alienato e diviso nelle sue facoltà dalla civiltà, dalle regole sociali, dalle necessità e dai bisogni.
    Recuperare il canto come unione, fusione di parola e musica, significa recuperare l'uomo nella sua integrità, nella sua mitica naturalità, nella sua pienezza espressiva". L'avventura stessa della poesia moderna e contemporanea "rischia" di coincidere in gran parte con il cammino di Orfeo verso la Notte, alla ricerca di una luce autentica di liberazione, di un'alba impossibile. La crisi della coscienza razionale spinge fin dalla seconda metà del ‘700 ad un'esplorazione sempre più acuta e profonda dei panorami interiori. Rousseau, grande antesignano delle paranoie del nostro secolo, sostituisce al "cogito" di Cartesio un ben più ineffabile esprit de finesse: è la fantasia che si libera dai vincoli del verosimile, del buono, del razionale. Con e dopo di lui comincia "l'epoca della fuga dalla cultura. Poeti e visionari, da Chateaubriand a Lenau, fuggivano dalle città via via sempre più imponenti verso le intatte foreste della Virginia, le incantate savane africane, le montagne asiatiche che sfioravano il cielo, o verso le isole dei mari del Sud dimenticate dal mondo. Essi fuggivano le ripugnanti maschere, le gabbie e gli specchi della civiltà". I romantici oppongono una rivolta anarchica alla morale del loro tempo. L'esperienza delle sanguinose guerre del XVII secolo aveva prodotto un diffuso timore del caos, della barbarie, delle passioni: si apprezzavano l'ordine, l'intelletto, la pruderie, le buone maniere, la tranquillità. Reprimere i propri sentimenti era considerato segno di buona educazione e di nobili origini. Ma i romantici sono fin troppo sazi di quiete e cercano una vita più intensa e movimentata: ammirano le forti passioni, che forse portano alla rovina ma almeno riempiono l'animo di un'ebbrezza altrimenti non esperibile; preferiscono l'individuo alla società, gli istinti primordiali alle convenzioni civili; disprezzano l'industrialismo e sostituiscono schemi di pensiero estetici a schemi utilitaristici; considerano bello tutto ciò che è inutile, violento, poderoso, titanico, distruttivo, strano, abnorme, misterioso, terrificante; amano l'espressione diretta del sentimento, affatto libera dalle censure dell'intelletto. In arte l'immaginazione estende il suo impero oltre i confini del "normale". La poesia eredita dalle dottrine di occultisti e "illuminati" come Böhme, Swedenborg e Saint-Martin la certezza di un mondo trascendente, doppio invisibile di quello fisico, sulle tracce del quale orienta le proprie creazioni, trasformandosi in rêverie, contemplazione del mistero, colloquio con la morte, ricerca dell'Assoluto. Questa "realtà seconda" è mescolata al quotidiano, ci avvolge e ci tocca misteriosamente: il "meraviglioso" romantico ha la pretesa di essere autentico al pari del reale. Ogni dettaglio del mondo è una parola della lingua universale, e il mondo stesso è come un Gran Libro ove tout se tient, tutto si corrisponde. Il poeta è chiamato a interpretare questa lingua, a leggere nel libro del mondo, a decifrarne il mistero, a rivelare il lato oscuro delle cose, la realtà essenziale celata dalle apparenze visibili.
    Lunedì, 18 Gennaio 2010 15:30
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/34883-il-mito-di-orfeo-vi.html) (continua)

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  17. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 7.
    Le correnti più feconde e innovative della creazione poetica si consacrano alla voyance di ciò che in Francia viene detto "surnaturalisme", si tuffano nel gorgo dell'invisibile, scelgono il sentiero oscuro e accidentato dell'irrazionale, ignota la destinazione.
    I poeti camminano sull'orlo del confine tra le due realtà, come acrobati sul filo; brancolano après le déluge, in un mondo irreale e fantastico ma autoconsistente; si misurano con obiettivi immensi, forse impossibili da raggiungere; oscillano tra solipsismo e messianismo; vorrebbero generare un "uomo nuovo" e ricondurre all'armonia (o almeno ad una disarmonia sostenibile) gli atomi scissi e febbrili del Caos. L'alienazione, cioè il modo alienato di vedere le cose, viene imputata ai "mostri" del Logos. Per guarirne bisognerebbe ammaliarli, renderli inoffensivi, abdicare alla falsa clarté della civiltà borghese, ai miti strumentalizzati del benessere diffuso e del progresso illimitato, tuffarsi nell'aperto del Sogno, nella "follia" (ciò che la Ragione chiama follia), nel magma incandescente dove bollono le pulsioni istintuali e primitive dell'Inconscio, per ritrovare la verità universale della vita: oltrepassare la banalità del quotidiano grazie al dono dell'ispirazione, oppure mediante un "lungo immenso e ragionato disordine dei sensi", oppure per stimoli artificiali. Soli e allucinati, i poeti moderni, perennemente in crisi, caduti negli abissi della privazione, orfani del Cielo, dispersi nel vuoto delle tenebre... ma con sottesa, anche se spesso amaramente rinnegata, la speranza di una luce baluginante all'improvviso dal cuore del Nulla, il "segno" capace di rovesciare lo scacco, di restituire l'armonia perduta e di svelare una volta per tutte l'arcana significazione del grande geroglifico universo. Per quel sentiero incenerito di stelle hanno scelto di addentrarsi, con passi e bagagli diversi, poeti come Novalis, Hölderlin, Hugo, Nerval, Rimbaud, Mallarmé, Trakl, Campana, Rilke, Breton, Artaud... È un sentiero che ha conosciuto il cammino di parecchi "transfughi" attraverso due secoli d'arte, dal Romanticismo alle molte avanguardie del Novecento. Ma, come ben sanno i poeti e i mistici, la discesa agli Inferi (o ai Paradisi) dello spirito non apporta facili compensi: le parole dileguano dinanzi all'ineffabile: ogni parola scritta sul foglio è solo la misura umana cui si costringe, annichilendola, la dovizia dell'illuminazione, una tregua momentanea al pericolo sempre incombente dell'afasia, un compromesso necessario ma non sufficiente; ed è, infine, il segno tangibile dello scacco che bisogna pagare in nome dell'espressione (se non proprio della comunicazione), giacché la migliore poesia possibile, rispetto a certe premesse, sarebbe non altro che il silenzio: l'Assoluto del Nulla, il Nulla dell'Assoluto. La tensione verso l'oltre è una "vuota idealità", un anelito vano e senza centro che respinge in basso con furia demoniaca colui che lo prova. Non c'è il conforto di una fede, di un "credo" istituzionale, condivisibile anche dal lettore.
    Martedì, 09 Febbraio 2010 15:01
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/34883-il-mito-di-orfeo-vii.html) (Fine)

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  18. Marco Onofrio, Il mito di Orfeo - 7.1.
    Il poeta moderno è Orfeo "cantore" per anelito di volontà e Orfeo "poietes" per indole e destino. Vorrebbe potersi identificare con lo sciamano apportatore di salvezza mediante le virtù lenitrici del canto; finisce per essere lo sconfitto che torna dall'Ade senza Euridice, forse con l'orgoglio di qualche conoscenza, di certo con la dolorosa consapevolezza del proprio limite, della propria inessenzialità. E anche se l'utopia salvifica passasse per l'audacia dello "sguardo", volontariamente, l'esito non sarebbe diverso. D'altra parte la sconfitta attende anche l'Orfeo "agamos", qualora egli creda davvero di poter redimere il mondo attraverso il suono dei versi, identificando il valore della poesia nella pura musicalità, tentando di riprodurre l'estasi nell'assoluta autonomia dei significanti, ridotti a balbettio magico, a nenia primordiale, a formula d'incantagione, svincolati da qualsiasi significato normativo, liberi da regole sintattiche, ormai completamente intraducibili e inafferrabili. Preferito per la sua consonanza storica e per la sua appropriatezza, la sua universale affinità al problema dell'arte, il mito di Orfeo si delinea non solo come uno dei luoghi più frequentati, ma come l'emblema stesso della condizione moderna. La figura di Orfeo mostra dunque una certa ambivalenza di connotati: incarnazione di una complessità così feconda che è in grado di offrire (e di fatto presta) il suo sostegno contemporaneamente ad opposti versanti della civiltà occidentale. In età antica, l'abbiamo visto, è anche il Mytos che si ribella a se stesso e che inaugura l'avvento del Logos; in età moderna, invece, è soprattutto il Mytos che accorre a salvare l'uomo dall'alienante dominio del Logos tecnicizzato e a ritemprare le ragioni della vita. Prima combatte i mostri generati dal sonno della Ragione; poi quelli generati dalla sua disumanità. Ed è chiaro che il mutamento (o l'eventuale contraddizione) non riguarda tanto Orfeo, quanto bensì la ricezione e l'uso che ne vengono fatti: ogni epoca, del resto, ha un suo modo particolare (a seconda delle evenienze e delle esigenze storiche) di riconoscersi negli oggetti della cultura.
    Martedì, 09 Febbraio 2010 15:01
    (Da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-cultura/item/34883-il-mito-di-orfeo-vii.html) (Fine)

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  19. Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica (1)
    Assunta una Verità come matrice di tutte le cose, tanto dell'essere come del non essere, nel suo espletarsi assoluta induce in errore; per altro verso, se rappresentata, riporta ad espressioni frammentarie, fuorvia confondendo. La Verità elude la condizione fisica pur essendone parte, fintanto da veicolarla al metafisico nel pensiero.

    Verità che sussiste se interconnessa tanto al piano fisico quanto a quello metafisico e racchiude l'Ideale universale, condizione di perfezione ed equilibrio, eterno nell'accezione del senza inizio e senza fine in ogni sua proiezione e introiezione. Da sempre il piano fisico è caratterizzato dal mutamento sottoposto ad agenti biochimici e geofisici, panta rei eracliteo. Siamo fatti della stessa sostanza delle stelle che, a sua volta, proviene ed è parte di ciò che è sempre stato, inteso come inevitabile contiguità tra piano fisico e metafisico. Sostanza che, nella sua costituzione materica, è condizione soggetta al moto del tempo. Una perfetta stasi parrebbe in antitesi col piano fisico, poiché ogni atomo o subalterna particella comporta un continuo, impenetrabile rimando ad altro movimento come, del resto, suggeriscono da sempre pianeti e stelle. E qui la scienza, anch'essa ormai protesa nella ricerca della Verità, nella pretesa di una tangibile contiguità con l'ultraterreno, segue un suo corso attraverso le nuove frontiere intraviste in buchi astrali e particelle elementari. Se da una parte constatiamo il movimento e la sua ciclicità rigenerativa per mezzo della trasformazione, dall'altra si palesa la sua negazione col fluire del pensiero libero da schemi spazio-temporali. L'ideale ingenerato, proprio per il suo patrimonio attinente all'immateriale nella condizione fisica, è accesso e condizione di mimesi del piano metafisico, ma ogni rappresentazione sul piano fisico è idealizzante e, se strutturata, produce l'ideologia, la quale induce ad una concezione di vita che si pone come dottrina e comporta, in ogni caso, esiti nefasti, devianti, tali da indurre in errore. La meditazione spirituale, ma anche la riflessione laica generante, non quella speculativa, quindi l'uso del pensiero in ragione della sua forza creativa, poiesis evocativa e compenetrante la condizione fisica, ha una valenza antica e tuttavia sopravvissuta nei rituali sciamani, ma anche in poeti degni di essere reputati tali, poiché non compiono azioni troppo dissimili. Alcuni poeti si aggirano in una coltre dogmatica, teocrate o tecnocrate-virtuosistica che sia, permanendo nell'errore, mentre altri, al pari dello sciamano nella possessione che li infonde, sono più esposti alla destabilizzazione della polivalenza frammentaria riportata sulla Verità. La poesia testimonia istanti, frazioni di Verità di per sé incongrue e fuorvianti, poiché limitata nella manifestazione temporale, nonostante sia ancestrale accesso alla sostanza e ai suoi distinti piani configuranti la Verità medesima. Il verso è un'autentica manifestazione dell'assoluto con un inizio e una fine, come tale disorienta in quanto soggetto all'immanenza dello spazio-tempo che ne altera l'originaria perfezione, ove l'istante non è più parte integrante dell'eterno, ma frazione di tempo scandito dal piano fisico. La poesia non è un testo fruibile in qualsiasi momento o condizione.
    Martedì, 09 Febbraio 2010 15:27
    (da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-filosofia/item/35427-annotazioni-per-una-poetica-ontologica.html)

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  20. Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica (2)
    La poesia è. In quanto tale, è compenetrabile solo in estemporaneità segnate dal testo attraverso la vibrazione del suono. L'istante di Verità proiettato nella poetica diviene quindi alterato, rapportandosi alla dimensione temporale. Tuttavia esso può essere immortalato attraverso il suono, che rende atemporale quanto sedimentato nella memoria universale, il qualcosa che ci comprende e la poesia percepisce in non luoghi diversamente non rapportabili al piano fisico. Nella tradizione orale permane traccia della sacralità del suono. L'originario "Canto" di Orfeo, lo sguardo alla volta di Euridice che resta sospeso nel momento tra luce e tenebre, anabasi e catabasi dell'istante poetico di ricerca che riporta ad una Verità frammentaria, sono mito e fondamento della cultura. Come la memoria, attraverso odori e suoni, agisce liberata da ogni schema preposto conducendo all'essenza dei ricordi svincolati da strutture, a partire dal tempo, la poesia, per altro verso, costituisce identità liberate occultandole, dei non luoghi in cui la memoria svincolata tornerà a condurci attraverso i primigeni sensi, mentre tatto, gusto e vista permangono più intimamente legati al piano fisico, seppure non esclusivamente. Udito e olfatto costituiscono gli archetipi sensi tramite i quali, se ancora debitamente sviluppati, si è in grado di percepire oltre la propria conformazione e quanto ci circoscrive, sono dunque sensi estesi, protesi verso l'oltre. La luce, assurgendo ad elemento simbolico metafisico, è la visione, non il visibile, che pervade tanto lo sciamano quanto il poeta. La visione è guidata da suoni ed odori, mentre la poesia genera identità liberate preposte alla visione. La luce, pertanto, è sì visibilità nella costante spazio-tempo, ma, altrove, è anche la compenetrazione, stato di alterazione psico-fisico, quindi il predisporsi all'oltre. Il dualismo luce-tenebre riconduce ad ataviche paure genesi di moralismi, ma in realtà è riconducibile a ciò che è visione o altrimenti è visibile. La contrapposizione è condizionata dall'osservazione del piano fisico con rimandi allo stato onirico, altra esperienza di alterazione dei sensi ma che, tuttavia, in quanto riprodotta nell'inconscio, resta legata all'istinto di rifiuto della morte. Ogni riferimento ad un aldilà suddiviso tra inferno e paradiso non è che un paradigma costituto sull'ordine fisico, un errore che sancisce la verosimiglianza tra il qui e l'oltre, piuttosto che interdipendenze nella celata contiguità sostanziale. Talune religioni che individuano nella reincarnazione la realizzazione su differenti piani volti al metafisico, sono più attinenti ad una rappresentazione di condizione di visione o mancata visione che riconduce al visibile, dunque al piano di provenienza. Solo un approccio eroico verso la vita, vero inferno vincolato al piano fisico nell'impenetrabile consapevolezza dell'oltre, è in grado di ribaltarci dignitosamente verso il nulla, ma questo non determina un'originaria malevolenza, bensì condizione d'iniziazione. L'insegnamento del poema omerico, dunque, resta sempre un valido punto di riferimento. La Commedia dantesca, tuttavia, meglio palesa la percezione fisica dell'aldilà attraverso l'ipogeo delle terree viscere dell'inferno e l'apogeo montagnoso del purgatorio.
    Martedì, 09 Febbraio 2010 15:27
    (da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-filosofia/item/35427-annotazioni-per-una-poetica-ontologica.html)

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  21. Enrico Pietrangeli, Annotazioni per una poetica ontologica (3)
    Allegoria di un viaggio nell'oltre del poeta, o piuttosto dello sciamano, che vi si annuncia nella "selva oscura". Viaggio che si formula nella percezione di dimensione, cognitiva e avallata dalla presenza intellettiva di Virgilio. Contrappasso che riconduce a retaggi medievali, ma anche al karma nella sua istanza evolutiva. Con l'approssimarsi del paradiso subentra l'elemento della realizzazione del sé, ossia Beatrice che, nell'ascensione tra i cieli, conduce alla percezione originaria, dove il visibile è soggiogato dalla visione. "La novità del suono e ‘l grande lume" sono altresì sigillo dell'empireo, memoria cosmica svincolata nella visione. Qui ogni consistenza diviene sempre più percezione di essenza, entità parzialmente rivelata, dove la "candida rosa" dei beati esplicita i sensi olfattivi. Un viaggio che giunge prossimo al punto di contiguità con l'assoluto, ove l'energia fonde e la visione stessa diviene accecante e indicibile, "amor che move il sole e l'altre stelle". Oltre vi è l'impenetrabile, l'insondabile, la perfetta stasi dell'istante compiuto in eterno, Verità a prescindere da ogni condizione. In sintesi, a proposito dei sensi, potremmo ricollegare il tatto e il gusto a funzioni di con(tatto), dove la memoria ha un corso perlopiù vanificato nella transizione dell'evento ed assume collocazione rievocativa. Essi sono mediati, nei picchi percettivi, da una mistica carnale attraverso una relazione dionisiaca. La vista, nella sua funzione di percezione della dimensione, predispone perlopiù una memoria cognitiva, elaborata nell'esercizio intellettivo. L'olfatto, percezione di essenza, è un'elaborazione inconscia e pervadente, dove la memoria è svincolata e la mediazione è incondizionata. L'udito è una funzione, tra l'altro, di equilibrio, trait d'union primigenio nella vibrazione siderale. Sensi che, in ogni caso, costituiscono la sfera di percezione poetica relativamente all'inclinazione individuale ed il sentire interiore, quanto i poeti dovrebbero avere connaturato. La predisposizione alla comprensione dell'animo porta il poeta ad assumere un'ulteriore facoltà percettiva: la vibrazione interiore, altresì suono, funzione incondizionata che conduce il poeta alla sublimazione. I poeti, come gli sciamani, hanno quindi un sesto senso, qualcosa che li rapisce all'esperienza dell'oltre. Non c'è poetica senza una cognizione ontologica. Non c'è r(e)sistenza se la poesia viene meno dal quotidiano. Viviamo sostituendo le nostre parti con quanto ci ha preceduto, ricedendo alla terra, fin da subito, l'acconto di un debito in sospeso tramite i nostri escrementi. Se resterà qualcosa a noi riconducibile è il pensiero, tanto sul piano fisico attraverso la scrittura, quanto su quello metafisico attraverso la vibrazione, sintesi, peraltro, ben rappresentate nel mito di Orfeo. Il noumeno diverrà fenomeno nel compimento del nostro transito. Resterà la nostra più intima verità che, se autentica, saprà ovunque e comunque capitalizzare altra Verità. Disobbediente ad una coscienza relegata all'habitus, oso ancora declamare arrancando al buio: Credo nel nulla:/ l'incomprensibile che non è,/in ogni inconsistente particella/sopra cui sanguina il cervello/per inesplicabile inconcretezza./Credo alla sua perenne,/impenetrabile atemporalità/e la più giovine saggia età./Credo nel selvaggio istinto,/a chi più nulla chiede/e niente dirmi saprà./Credo nelle aguzze,/roventi affilate spade/del lupo assassino,/in ogni creatura/sensibile e affamata.
    Martedì, 09 Febbraio 2010 15:27
    (da: http://www.controluce.it/giornale-rubriche/giornale/rubrica-filosofia/item/35427-annotazioni-per-una-poetica-ontologica.html)

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